14 Lug Nick Bullock
Intervista di Marco Vegetti – UP2008
Nascere il giorno di Natale può essere una fregatura: metà dei regali!
Il vantaggio è quello che nessuno si scorderà mai del tuo compleanno.
Nick Bullock è nato il 25 dicembre 1965 e di certo, nel panorama alpinistico internazionale, nessuno se lo scorderà.
Nick ha cominciato tardi ad arrampicare, nel 1993, a ben 28 anni, ma in questi 14 trascorsi, ha lasciato il segno.
Oltre il 7c su vie di roccia in UK, USA, Australia, Spagna e Francia; una quantità di grandi classiche e di vie nuove sulle Alpi, tra Francia, Italia e Svizzera; decine di spedizioni tra India, Peru, Pakistan e Nepal, tutte all’insegna di vie nuove su montagne pressoché sconosciute o tentativi di ripetizioni di vie famose mai mai ripetute (come la Boardman-Tasker sul Changabang, ancora in attesa della seconda salita); salite su cascate di ghiaccio nelle Alpi, tra Francia, Italia e Svizzera e in Canada; e per finire, da buon brit, una serie infinita di salite invernali in UK, tra Galles e Scozia.
Dal 2003 Nick è un alpinista a tempo pieno e un ottimo scrittore, nel più puro stile anglosassone.
Tra il 1987 e il 2003 ha lavorato come professore di ginnastica nelle prigioni di Sua Maestà Britannica, e forse è questo ad avergli dato uno sguardo diverso, scanzonato a volte, sempre profondo e disincantato, sulla vita, il mondo e su se stesso.
Su Vertical ho letto del tuo tentativo con Al Powell allo Jirishanca. Sembrerebbe che sia una montagna davvero difficile. Cosa pensi della salita del 1957 di Egger e Jungmair? Erano dei veri e propri precursori?
Si, lo Jirishanca è davvero una montagna difficile o, ancor meglio, una somma di difficoltà tecniche, cattivo tempo che attrae e una posizione isolata. Averla salita nel 1957 e con lo stile di Egger e Jungmair fu davvero futuristico. Noi abbiamo trovato la cresta est molto tecnica e difficile. Forse è cambiata molto dal 1957 ma ancor oggi riattaccare in stile alpino la cresta dal campo alto dopo averci già provato prima rimane una cosa tosta e avventurosa. Il Perù sembra riuscire a evocare negli alpinisti questo tipo di sfida. E mi auguro che possa continuare a lungo…
Nello stesso articolo tocchi un argomento “sensibile”: la rinuncia. Troppo spesso molti alpinisti hanno avuto incidenti gravi causati dal continuare a oltranza una salita nonostante le enormi difficoltà incontrate, il cattivo tempo, ecc.
Pensi che questo modo di agire sia dovuto alla mancanza di umiltà nei confronti della natura o semplicemente ad un senso di superiorità o immortalità?
Sono sicuro che siano moltissime le ragioni per le quali gli incidenti capitano quando una cordata si spinge oltre…
Sì, qualche volta ho il sospetto che sia esattamente come tu dici nella domanda. Insistere nel cattivo tempo non è semplicemente mancanza di umiltà di fronte al meteo. Fattori come la parte difficile della salita che manca, la distanza dalla vetta, la quantità di cibo rimasta, quanti giorni passati arrampicando, la quota, il tipo di discesa e su quale via… Tutte queste problematiche vanno prese in considerazione e solo allora una decisione definitiva può essere presa…
Penso anche che a volte un alpinista molto forte possa spingersi troppo oltre con un senso di invincibilità dovuto ai precedenti successi su cime o vie difficili. Forse, questo passato “vittorioso” lo induce a pensare di poter affrontare e superare ben più difficili prove per rimanere in testa alla classifica e questo può portare a fare delle scelte irrazionali…
Ma…
Sono dell’idea che alcune delle più significative e dure salite siano state compiute proprio rischiando. Insomma, salite che non sarebbero state effettuate se non si fossero accettati rischi. Le montagne sono comunque pericolose, specialmente quando si salgono grandi pareti in stile alpino e talvolta la distanza tra un glorioso successo e una tragica disfatta è veramente sottile. Probabilmente la gente che non arrampica così non capisce veramente che molte delle salite al limite degli anni recenti abbiano cavalcato questa sottile differenza. Nella particolare occasione, la scelta è facile: quando io e Al ci siamo ritirati allo Jirishanca fu molto difficile. Io sarei andato avanti prendendo qualche rischio, Al no e alla fine posso dire che aveva ragione. Il tempo era pessimo il giorno dopo e non avevamo più cibo. Credo che un’altra notte lassù senza cibo e all’aperto con i sacchi a pelo fradici avrebbe solo portato a una ritirata davvero disperata o peggio avremmo potuto rimanerci… Alla fine, mi sono congelato un po’ a causa della disadratazione e della mancanza di cibo…
Parlando del tuo lavoro dici che i tuoi (inusuali) studenti spesso non capiscono la differenza tra la loro droga e la tua… L’alpinismo è una vera droga? E può essere un rimedio in qualche modo o usato come una terapia?
Sì, l’alpinismo è una droga. Alcuni possono farne uso occasionalmente a certi livelli, e poi starsene lontani per lunghi periodi. Qualcuno ci casca dentro ad un livello più profondo e pian piano diventa un consumatore abituale, tenendolo sotto controllo, dietro a una vita regolare, rapporti consolidati, figli, casa, ecc. ecc. Ma tornando ad assumerne regolarmente… E poi ci sono persone che non possono farne a meno… Desiderano ardentemente arrampicare, le montagne, l’incertezza, l’esperienza, vivere al limite e spingere oltre i propri limiti, la vita per queste persone è una sfida, da essere vissuta e spremuta fino in fondo. Sono dei consumatori di classe A, gente che vive soltanto per la propria dose mettendo tutto il resto in secondo piano. Si, è una droga. Anche i consumatori occasionali sognano la prossima via, il grado più alto, la quota più elevata, la prossima vetta. E’ un appiglio per loro, ma solo questo. Arrampicare e l’alpinismo sono usati come terapia da tutti, ad ogni livello: è una liberazione, una fuga, aiuta a dimenticare, è una sfida e ti lascia mettere da parte le bollette da pagare, i problemi, le banalità, la pazzia. Ti fanno stare in forma e ti fanno entrare in un club esclusivo, ti danno una identità.
L’inverno scorso sono stato in Scozia ad arrampicare nei Cairngorms e al Ben Nevis. Ho trovato che esiste una enorme differenza nell’approccio all’arrampicata tra gli scozzesi e i “continentali”: niente chiodi ad espansione, grande abilità nell’usare i materiali per proteggersi… Ma quello che più ho apprezzato è stato l’approccio mentale… Pensi che ci sia una sostanziale differenza tra quello anglosassone e quello europeo-continentale?
Trovo questa una domanda difficile: la risposta immediata sarebbe sì, ma non so se questa possa essere una risposta definitiva. Gli alpinisti europei hanno spinto avanti i limiti per anni sui più importanti massicci montuosi. Tu affermi di apprezzare lo stile mentale dei britannici e io aggiungo che la parte mentale è il fattore più importante del mio stile in ogni salita. Non se se, comunque, esista questa enorme differenza in Europa. Hmm vediamo… Lo scorso inverno ho salito tutte le vie difficili sul versante Est del Tacul in Francia e, a parte una, tutte avevano ancoraggi fissi. Mi ha fatto piacere vedere che nessuna aveva chiodi a pressione, ma solo vedere le soste in loco mi ha fatto vivere le salite con grande relax dal momento che sapevamo che avremmo potuto calarci da qualsiasi punto avessimo voluto. Per molte delle cordate francesi la norma sembrava essere quella di scalare fino al punto più alto possibile, calarsi e correre a prendere l’ultimo treno o arrampicare i primi due tiri della via, quelli che includevano il punto chiave, e poi calarsi.
Noi eravamo invece decisi ad arrampicare totalmente le vie, scendere, tornare all’Aiguille du Midi, dormire là e prendere la prima funivia alla mattina.
Probabilmente l’arrampicata invernale in UK ha ancora un senso di avventura e non è solo lo spingersi più in alto possibile il più in fretta possibile o arrampicare tiri difficili prima di correr via in nome del comfort… Detto questo, credo che ci siano in Europa alpinisti eccezionalmente tosti e avventurosi ma probabilmente sono uno sparuto gruppetto. Anche sicurezza e fattori di convenienza creano grandi talenti, anche se perdono un po’ in avventura e per me avventura significa alpinismo…
Quale potrebbe essere il futuro dell’alpinismo?
Molti anelano alla difficoltà e sembrano pochi invece quelli che puntano sull’esplorazione dei massicci montuosi meno conosciuti…
Non so se sia proprio vero o se invece non lo sia, c’è molta differenza da quello che è sempre stato? Il “super-alpinismo” è sempre stato cosa da pochi. Non è certo una attività facile o alla moda. Alcune zone sono sempre state popolari, come il Khumbu, la Patagonia, la Cordillera Blanca e certe parti dell’Alaska. In queste aree ci sono vette popolari e vette difficili. Al di fuori delle zone di più facile accesso, pochi sono quelli che tentano di salire nuove vie o sconosciute montagne. Forse la domanda e la risposta potrebbero essere legate a quella sul terrorismo che fai più avanti. Forse la gente ha paura di andare in zone poco conosciute. Penso che la prospettiva delle persone sulla vita e su cosa esse vogliono e su cosa si aspettino sia pure cambiata. Il tempo è prezioso, il solo pensiero di spendere mesi e mesi su un unico obiettivo non è accettabile o possibile. In Occidente mi pare ci sia una certa idea che “il denaro può comprare qualsiasi cosa” e quando manca la certezza di riuscire a ottenere quello per cui si dovrà spendere quel denaro così duramente guadagnato, allora si preferisce rinunciare in partenza. Naturalmente questo ragionamento tocca anche la questione Everest: quali sono le reali motivazioni per scalare? Se una persona arrampica per lo status non andrà certamente in una zona dove nessuno saprà nulla sulla salita che ha fatto.
Vale anche per la difficoltà: la gente va in montagna solo per la difficoltà e non per l’avventura? Se fosse vero, forse sarebbe un colpo per i climber professionisti perché avrebbero la sensazione di doversi spingere oltre i propri conosciuti limiti di difficoltà per giustificare la propria posizione.
La domanda significa perché la gente arrampica e cosa vogliamo dal nostro arrampicare? Arrampichiamo tutti per differenti ragioni e proprio perché queste ragioni sono differenti l’una dall’altra non rendono le persone meno importanti o meno degne (a meno che non sia semplicemente status, allora c’è bisogno di farsi qualche domanda…). L’avventura, l’incertezza sono due delle mie principali ragioni, ma anche l’atto stesso di completare molti tiri di arrampicata tecnica e la sfida fisica: così non intendo sminuire un alpinista che non sia interessato a passare settimane viaggiando, acclimatandosi, aspettando il bel tempo prima di cominciare ad arrampicare. Io sono fortunato per essermi permesso la possibilità di arrampicare a tempo pieno e di poter alternare grandi avventure a piccoli viaggi più tecnicamente impegnativi.
Il futuro? Penso sarà più “sano” in generale più si ignorerà il circo dell’Everest. Gli alpinisti si stanno aprendo e sono più onesti che in passato, lo stile di molte nuove salite è ottimo e i limiti spinti avanti…
Se dovessi scegliere un exploit, come ti piacerebbe essere ricordato nella storia dell’alpinismo inglese?
Credo proprio che vorrei essere ricordato più per il tipo di vita che faccio ora. L’unico vero exploit sarebbe rinunciare a un lavoro per tutta la vita ben pagato, una pensione, una casa, il comfort, uno spazio tutto mio e poter mollare tutto questo per diventare un nomade arrampicatore e scrittore a tempo pieno…
In questi anni il mondo alpinistico è stato inondato da premi, award, riconoscimenti e competizioni di ogni genere e qualcuno di dubbia qualità… Specialmente sull’Everest: il più giovane, il cieco, quello senza gambe, la donna più anziana ecc. ecc.
Pensi che tutto ciò sia salutare per la comunità alpinistica?
Personalmente credo che tutti questi premi sono più adatti alle star del cinema.
Le gare di arrampicata sono ok, se a questo aspiri, ma non è un aspetto dell’alpinismo che mi interessa.
Credo che tutte le corde fisse vadano letteralmente strappate via dalle pendici dell’Everest. L’uso dell’ossigeno dovrebbe essere screditato e disapprovato e gli “alpinisti” dovrebbero salire la montagna senza essere accompagnati da guide o sherpa d’alta quota. Solo allora i veri ed esperti alpinisti accetteranno l’idea di andare là e allora forse i veri valori dell’alpinismo sull’Everest ritorneranno…
Credo che tutto il “Circo Everest” non sia salutare per l’alpinismo. Molte persone (non tutte, dal momento che sono sicuro che alpinisti molto competenti e pieni d’esperienza salgono ancora l’Everest) vogliono solo mettere una crocetta su una casella e sono fortunate ad avere abbastanza soldi per permetterselo. Se una persona ha il sogno prepotente di salire l’Everest, ben venga, ma lo renda reale facendo esperienza salendo prima altre vette. Perché non andare su una montagna più remota con poche altre persone e godere le montagne per quelle che sono e non per i complimenti fatti a cena? Perché c’è chi sale la via del 1953 in uno stile peggiore di quello della prima salita? Agli occhi del grande pubblico, chi sale passando accanto a gente che muore o fa causa alle guide per qualsiasi stupida ragione è un alpinista e noi tutti siamo considerati ugualmente “sporchi” grazie a questa gente.
Sicuramente a lungo termine nulla di buono ne verrà per l’alpinismo tutto.
Edmund Hillary ha reso alle comunità che vivono intorno all’Everest molto di quello che loro han dato a lui, con fondi e donazioni, costruendo scuole e ospedali, continuando a darsi da fare per il popolo sherpa e per la protezione di quelle aree montane. Rehinold Messner, ad esempio, “ha camminato ben lontano” da tutto ciò…
Cosa ti piacerebbe che venisse fatto per promuovere la conservazione della wilderness delle zone montane del pianeta?
Un’altra difficile domanda alla quale la mia immediata risposta potrebbe essere che l’unico modo di preservare quelle aree sarebbe quella di chiuderle totalmente al turismo di ogni tipo. Non succederà ed io, come alpinista, neppure lo vorrei. I tempi corrono, i trasporti sono più economici e facili e la gente vuole viaggiare. Un giorno dovremmo accettare il fatto che la totale wilderness sia scomparsa. Le cose cambiano e il segreto sta nel comprendere questo cambiamento e di viverci insieme. Viaggi e avventura sono per tutti e non devono rimanere il regno dei ricchi. Più gente viaggia, più grande sarà la comprensione e l’interesse per il futuro dei posti che si sono visitati.
Le nazioni dove sorgono le aree montane più selvagge sono generalmente paesi poveri e gli introiti che vengono dall’alpinismo sono benvenuti. Parte di questi introiti andrebbero usati a favore delle popolazioni che vivono in quelle aree. E’ notevole che Hillary abbia trovato tempo e fondi per aiutare quella gente ma penso che dovrebbe essere fatto di più da parte dei governi e degli enti che si occupano di alpinismo in quei paesi. Le montagne più “costose” che ho salito sono in India. Ho dovuto lottare per trovare i soldi per arrampicare laggiù e quando ho visitato a Nuova Delhi la sede del Club Alpino Indiano ho trovato un’opulenza drammaticamente ironica e ripugnante. Se una parte dei soldi che noi alpinisti sborsiamo fosse usata in programmi educativi e in aiuti per le popolazioni locali, questi alti costi sarebbero certamente più accettabili.
Sembra che la Gran Bretagna sia diventato l’obiettivo principale del terrorismo internazionale. Pensi che questo abbia influenze anche sul mondo dell’alpinismo? E più in generale, come pensi che ciò possa influire sull’alpinismo?
In generale, direi che il terrorismo non ha toccato l’alpinismo, magari ha cambiato il modo di pensare degli alpinisti. Meno gente sta visitando Nepal, Pakistan e India, ma credo più a livello del turismo che dal più “scafato” alpinismo. Generalmente in questi paesi gli alpinisti sono sempre i benvenuti. Credo che i media gonfino le notizie più del dovuto e la gente viva nella paura a causa di questo. Gli alpinisti sperimentati hanno imparato a quantificare il rischio e immagino che ben pochi abbiano paura di visitare un paese a causa della minaccia del terrorismo.
Mi pare che agli alpinisti non piaccia esprimersi su questioni politiche. L’unica eccezione che conosco è stata la rivista americana Alpinist che ha pubblicato un editoriale contro la guerra in Iraq. Pensi che sia un problema di mancanza di coscienza o semplice ignoranza o magari la paura di perdere degli sponsor?
Gli alpinisti sono solo persone, persone che lavorano, hanno una vita, una famiglia. Il fatto che arrampichino non significa che non possano avere un’opinione politica come la gente comune per strada. In generale penso che gli alpinisti probabilmente abbiano le proprie opinioni o forse anche di più visto che viaggiano e conoscono di più della media. Tu basi quel che dici sul fatto che nulla sia stato scritto. Penso che forse si dovrebbe chiedere agli scrittori, agli editori e anche ai lettori perché non si legge di politica nelle riviste di montagna. Se leggo una rivista di alpinismo io vorrei leggere piuttosto degli aspetti psicologici di una salita, dei pensieri di un alpinista, della sua vita, delle motivazioni e infine della salita stessa. Personalmente, trovo la politica noiosa e piena di ipocriti. Se sentissi la motivazione per scrivere di un argomento politico lo farei: credo che nessun alpinista avrebbe paura di perdere gli sponsor per questo e se pure succedesse, potrebbe trovarne degli altri. Le politiche dell’alpinismo sono molto più interessanti da leggere per un alpinista che le politiche delle nazioni. Se voglio leggere di politica, insomma, mi comprerei un quotidiano…
Tu hai scritto spesso a riguardo sia delle tue esperienze di lavoro che in montagna. Pensi che una “capacità letteraria” sia un vantaggio per un alpinista che vuol far vedere in giro le sue realizzazioni? O lo fai perché è un modo di “esorcizzare” le emozioni passate e per far spazio a quelle a venire?
Ovviamente, scrivere delle proprie esperienze alpinistiche darà all’alpinista notorietà (sempre che siano pubblicate) ma è questa la ragione per cui scrive? La risposta potrebbe essere: no. Sono stato tirato dentro nello scrivere sulle mie salite molto tempo dopo aver cominciato ad arrampicare e aver aperto nuove vie… Non ho mai pensato che questo avrebbe aiutato la mia immagine e certamente non ho cominciato ad arrampicare per farmela. Non immaginavo di arrivare al punto dove sono ora e anche ora, nel grande palcoscenico alpinistico, non penso di essere un prim’attore…
Io arrampico per me stesso e per fare esperienze, se mi sento motivato poi, scriverò qualcosa su questo. Scrivere è molto catartico. Adoro lo sviluppo dello scrivere un saggio o un articolo e sentire come esso sgorga tutto assieme. La mia stessa vita è stata migliorata dallo scrivere. Lo stile del mio scrivere mi fa stare seduto a pensare della salita, i pensieri, le emozioni, il sentire. Non vado in montagna pensando che scriverò per una rivista e questo aumenterà il mio status. Quello che generalmente succede è che mi sento motivato a scrivere da una mia esperienza o da qualcosa che è successo nella mia vita e quando è scritto e mi piace lo mando a un paio di persone per una possibile pubblicazione. Chi scrive ha bisogno che la propria fatica venga letta. Che non significa “farsi belli” di questo, non per me almeno. Ho così tanta roba scritta mai pubblicata o mandata a nessuno, escluso a qualche amico!
L’ultima cosa su questa domanda: continuerei a scrivere se non avessi sponsor o non avessi bisogno dei pochi soldi che mi pagano? La risposta è una: sì!
Hai una mascotte che ti porti quando sei per monti?
No. Se devo portare del peso in più, prenderei spazzolino e dentifricio. Mi sembra più appropriato di una mascotte portafortuna. E mi aiuterebbe anche a risparmiare sulle spese del dentista…