12 Dic Fred Nicole
Intervista di Maurizio Oviglia – UP2004
È difficile presentare Fred Nicole, leggenda e riferimento del bouldering mondiale e dell’alta difficoltà in generale… Difficile farlo senza scadere in un interminabile elenco di realizzazioni a cui lui ci abituato, da più di15 anni a questa parte. Fred è però qualcosa in più che una sterile lista di numeri e di record. Con la sua discrezione, le sue idee ecologiste, la sua infaticabile passione, per anni ha incarnato l’immagine dell’anti-divo per eccellenza. Con poche fotografie dai toni freddi, i suoi jeans e un fuoco acceso sotto i suoi passaggi impossibili, è riuscito a rimanere un punto di riferimento anche per le nuove generazioni, cresciute nelle sale boulder piuttosto che nelle fredde foreste svizzere. Ed ha fatto diventare la Svizzera una Mecca mondiale del bouldering di oggi…
Nato nel 1971 nel cantone di Vaud, Svizzera, Frederic si mette presto in luce insieme al fratello Francois ripetendo il celebre Toit d’Auguste, liberato (e non gradato) da Patrick Berhault ed invano tentato dai più forti scalatori dell’epoca. È il 1987 e Fred ha 16 anni e arrampica da soli 3 anni! I due fratelli propongono 8b+, ma il gotha della scalata mondiale fa fatica a credere che due adolescenti sconosciuti siano stati capaci di tanto. L’anno dopo però, nella falesia di Saint Loup, luogo che diventerà il suo personale laboratorio di difficoltà, libera il suo primo 8c. La cosa passa però quasi inosservata, sinchè Fred non azzarderà la proposta di 9a per Bain de Saing, 5 anni più tardi. La precedono e la seguono un interminabile serie di realizzazioni, quasi sempre prime rotpuntk, che nel corso degli anni lo hanno avvicinato sempre più al bouldering, quando questo era un’attività del tutto marginale e poco mediatizzata. Fred non ha mai avuto timore di proporre nuove difficoltà quando ha ritenuto, suscitando spesso scetticismo tra i suoi colleghi, ma dimostrando un rapporto sereno con “il grado” e con i media. Il tempo ha finito per dargli ragione e le sue vie, i suoi passaggi, sono oggi dei masterpiece dell’alta difficoltà. Viaggiatore per eccellenza, tanto da meritarsi l’appellativo di “bloc trotter”, Fred si è confrontato con i problemi più duri del mondo, non avendo timore di toccare nei suoi pellegrinaggi tutti e cinque i continenti. Lontano da casa, come nella sua amata Svizzera, ha lasciato in eredità alla comunità mondiale degli arrampicatori passaggi estremi, ma soprattutto linee bellissime.
Fred, dopo tanti anni tu sei ancora sulla cresta dell’onda. Da dove attingi questa spinta inesauribile a trovare e salire sempre nuovi problemi?
La mia motivazione non è mai stata quella di essere o restare “ sulla cresta dell’onda ”. La sola risposta che so dare a questa domanda è che ciò che mi spinge è il desiderio di arrampicare, sempre e ancora. La voglia di progredire e migliorarmi. Tutto resta ancora da fare e infatti una delle cose che mi motiva di più è quella di trovarmi al cospetto di rocce vergini, mai salite. Questa sensazione di mettere il piede in una terra incognita a portata delle mie braccia è una delle più belle emozioni che ho potuto percepire. Cercare di “ sentire ” il potenziale di un luogo per meglio scoprirlo. In ogni caso non è il solo aspetto che mi coinvolge, perché ho spesso apprezzato l’arrampicata in posti già esplorati. La scalata mi sembra un’attività talmente ricca di possibilità che non ho avuto ancora tempo di annoiarmi. Spero vivamente di poter continuare a praticarla con la stessa passione ancora a lungo.
Quanto é importante per te fare una prima? Non trovi che nel bouldering di oggi ci sia molta imitazione e poca creatività?
Non penso che il semplice fatto di realizzare delle “ prime ” sia il punto più importante. È però vero che, guardando in maniera retrospettiva alla mia carriera, la maggioranza delle mie realizzazioni siano delle prime salite. Ciò è dovuto al fatto che io ho scalato spesso in posti sove tutto era ancora da fare o comunque con un grande potenziale. Il bouldering, quando ho iniziato ad arrampicare, era un’attività minoritaria e, a parte Fontainebleau, tutto rimaneva ancora da fare. Ancora adesso la possibilità di trovare nuovi siti resta enorme. Ma pensando ad oggi, non credo veramente che la pratica manchi di creatività. Al contrario, il bouldering sta conoscendo un periodo di espansione molto creativa. Penso però che sia difficile comunicare questa creatività in termini adeguati, comprensibili. In senso generale, la sola cosa di cui prendono nota i media è il discorso del grado ed eventualmente la velocità con cui è stata fatta una realizzazione. Il contesto o la creatività che ti hanno fornito la motivazione per arrivare a questa realizzazione non viene mai descritto.
Che cosa é per te la ricerca della difficoltà e quale rapporto c’é con la bellezza del gesto e della linea?
Sono due cose ben differenti. La ricerca del grado non può riassumere tutta la bellezza del bouldering. Più passano gli anni, più il carattere che possiede un certo passaggio diventa importante ai miei occhi : l’ambiente, la bellezza della roccia, la purezza di una linea , senza dimenticare la fluidità dei movimenti. Tutte queste variabili influiscono sulla mia motivazione a risolvere un blocco piuttosto che un altro.
Un famoso alpinista e arrampicatore italiano degli anni 80 ha detto che la ricerca del rischio e quella della difficoltà dovrebbero rimanere su binari separati. Secondo te che influenza ha, o deve avere, il rischio nel bouldering?
È una questione di scelte personali, ciascuno deve essere libero di rischiare come vuole. Personalmente non sono un fanatico del rischio e il bouldering che pratico io non è un’attività molto rischiosa. Utilizzo diversi crash-pad, dei buoni paratori e talvolta anche la corda dall’alto.
La Svizzera si sta rivelando come uno dei luoghi più belli e frequentati del mondo per fare bouldering. Che cosa ne pensi? Ti senti in parte responsabile di questo successo?
La Svizzera è un piccolo paese di montagne con rocce di buona qualità, da sempre è stato così. Però è solo negli ultimi dieci anni, grazie agli articoli sulle riviste, che la massa ha cominciato a conoscere questa qualità e questa quantità.
Qual’è il tuo rapporto con Fontainebleau? Per te è sempre un luogo di riferimento?
Fontainebleau è il luogo dove fare bouldering che ha il contesto storico più importante. Si arrampica sui massi da più di cento anni con una costanza e frequentazione che non possiamo che trovare nelle vicinanze di una metropoli (Parigi, ndr). È dunque legittimo che la foresta sia considerata come la culla del bouldering in Europa. Ma ciò detto va osservato che il bouldering si pratica, malgrado tutto, anche altrove e ogni posto ha le sue caratteristiche. È inutile continuare a paragonare sempre i vari posti volendo avere un solo luogo di referenza.
Secondo te si può parlare di “bouldering moderno” o non è cambiato molto l’approccio a questa disciplina nell’ultimo ventennio?
Tutta la pratica del bouldering ha conosciuto un’evoluzione. Impossibile dire che nulla sia cambiato, già solo a livello di materiali (crash-pad), di pratica (parata, partenza da seduti, moltiplicazione dei posti…). Però penso che il cambiamento più importante sia da ricercare nella mentalità, perché il bouldering è passato da un’attività minoritaria e marginale alle luci della ribalta, e tutto questo solo in una decina d’anni.
Alcuni hanno interpretato criticamente l’abitudine di Sharma di non dare gradi ai passaggi e il tuo scetticismo nei confronti delle valutazioni. Tu lo vedi come una possibile evoluzione o l’arrampicata rimane e deve rimanere legata ad un numero?
Io non penso che il modo di gradare e il sistema dei gradi sia perfetto, ma non credo che allo stato attuale si sia trovata un’alternativa migliore. Prima di tutto il grado è indicativo, uno strumento per meglio mettere in evidenza la natura di una via o di un passaggio. Un mezzo di comunicazione ancora indispensabile nella comunità degli arrampicatori di oggi. Sarebbe però bello che il grado non diventasse il solo aspetto che la massa recepisca della scalata. Delle guerre di campanile per un più o un meno…
Sembrerebbe che, almeno in Italia, il bouldering abbia sensibilizzato gli arrampicatori nei confronti delle prese scavate. Tu hai notato un cambiamento di atteggiamento nei confronti di questo problema, oppure molta strada resta ancora da fare?
In tema di massi la mentalità cambia un poco ; la gran parte degli arrampicatori ricerca un’arrampicata omogenea e senza passaggi singoli mentre il fascino del bouldering è proprio nella risoluzione di questi passaggi difficili. Si finisce per considerare in modo differente la roccia e a ripensare alla definizione stessa di arrampicata libera. Penso che questo sia uno degli aspetti positivi del bouldering…anche se le prese scavate continuano a esistere e la mentalità evolve in modo lento.
In un intervista di diversi anni fa tu hai detto una frase molto bella, che io ho citato in un mio articolo: “Non dobbiamo dimenticare che in tutto il mondo si arrampica…”, che suonava come un invito a non sentirsi (inteso come europei) al centro del mondo. Che cosa significa per te viaggiare e confrontarti con altri arrampicatori e altre culture?
Il mio obiettivo non è mai stato quello di compararmi ad altri arrampicatori, piuttosto di farlo con altri tipi di roccia e di luoghi di scalata. È buffo, ho come l’impressione che viaggiare dovrebbe aiutare a sentirsi un po’ meno al centro del mondo, ma purtroppo questo non è l’effetto che produce su tutti…
Pensi che un gruppo di sassi in un bosco, dove scalare solo o assistito da un amico, reggerà ancora a lungo il confronto con la sala boulder, dove sei incitato da tante persone come allo stadio? Che spazio ha mantenuto il silenzio e il rapporto con la natura, nel bouldering? Quali sono le ripercussioni, positive e negative, che potrà dare l’attuale successo del bouldering, nell’arrampicata di domani?
Il rapporto con la natura mi sembra che sia alla base stessa del bouldering. Per meglio percepire la ricchezza della roccia, una migliore comprensione dell’ambiente in cui si trova è indispensabile. Per me si tratta di una ricerca nel microcosmo dell’arrampicata che mi porta a comprendere il macrocosmo della natura, dell’ambiente. Spero vivamente che le nuove generazioni non dimentichino che noi siamo prima di tutto degli ospiti in luoghi (di arrampicata) dal fragile equilibrio e che dalla nostra sensibilità verso la natura dipenderà il futuro della nostra attività outdoor.