24 Ott Ines Papert
Intervista di Antonella Cicogna UP2006
Bruna, capelli lunghi e lisci. Denti bianchissimi. Spalle forti e tonde. Dita lunghe, da un’infanzia passata sulla tastiera di pianoforti e sax, indurite ora da anni di roccia e ghiaccio. Trentaduenne, tedesca, Ines Papert è una pulita. Basta entrare nel suo sito web per capirlo. Con tratto elegante, essenziale, la pagina si apre su sfondo grigio e dichiara: ice cold passion. Niente fronzoli, sparate da super woman. Quattro volte campionessa del mondo di ghiaccio, Ines non è però fatta di solo ghiaccio. La Camillotto-Pellesier alla nord della Cima Grande di Lavaredo è stata lei a salirla in libera il 20 luglio 2006. Prima donna a farlo dopo che Mauro “Bubu” Bole l’aveva liberata nel 2003. “Un sogno diventato realtà, anche se può sembrare assolutamente retorico”, spiega Ines. “Era il mio progetto più duro, in cantiere già da prima dell’incidente in Marmolada, che ho dovuto accantonare per più di un anno. Eppure è stato il mio faro. Con quell’obiettivo in mente ho cercato di concentrarmi il più possibile per rimettermi in piedi quanto prima. Nessun titolo mondiale mi ha dato tanta soddisfazione quanto il salire in rotpunkt questa via. Non conosco altre linee alpine che abbiano questa esposizione”.
Misto, roccia, ghiaccio: Ines non si è mai detta “adesso basta”, e soprattutto non ha mai smesso di coltivare il suo primo amore: le montagne, le nord, le sfide alpinistiche. Dalle montagne è partita, e alle montagne ritorna, seguendo anche la linea del destino…
“Mi sono fatta tantissimi amici partecipando alle gare su ghiaccio: russi, canadesi, coreani, europei. E ho potuto viaggiare molto, conoscere tanti altri modi di pensare, e per queste ragioni non ho mai voluto mancare a qualche appuntamento. Le gare mi hanno dato la possibilità di rafforzarmi nel carattere, nella consapevolezza di valere, nella tecnica, e anche di trovare gli sponsor che poi mi hanno consentito di condurre la vita che conduco oggi. Però, nonostante tutto, ho deciso di smettere. Perché adesso non farei che ripetermi, potrei vincere di nuovo quello che ho già vinto, ma non vedo possibilità di ulteriore crescita. Dunque, torno definitivamente alle montagne. Inoltre, coi nuovi regolamenti UIAA, le gare hanno cambiato la loro fisionomia, in modo positivo ma anche negativo. Il vantaggio è certamente l’uniformazione dei regolamenti e un maggior riconoscimento a livello pubblico. Lo svantaggio è quello di avere controlli anti-doping che sono molto cari ma servono a poco. Purtroppo i soldi mancano, sempre e soprattutto nonostante la UIAA. Poi, ultimamente, non tutte le gare sono state ben organizzate. Se tutte fossero come quella della Val Daone o di Saas Fe, allora penso che i ghiacciatori sarebbero più contenti. Vedrebbero valorizzarsi i sacrifici, l’allenamento e il tempo che investono nelle gare.”
Cosa ti affascina di più delle vie lunghe?
L’arrampicata in falesia è allenamento e divertimento con gli amici. Le vie in montagna sono per me una vera sfida, seria e molto impegnativa. È un terreno sul quale riesco a sfruttare tutte le mie qualità. Le pareti esposte di ghiaccio, misto o roccia, non mi spaventano affatto, fermo restando che siano decentemente proteggibili. Anzi, nelle linee cerco la perfezione e l’esposizione. E sono affascinata dalle nord. Hanno un aspetto ancor più severo per il fatto che non ci batte il sole, e nei mesi estivi mi piace scomparire nella loro ombra. Mi piace anche la sensazione di arrivare in cima a qualcosa. Le vie lunghe in montagna, come la Camillotto-Pellesier o Symphonie de Liberté alla Nord dell’Eiger, mi motivano maggiormente, richiedono un impegno fisico e mentale notevole e la combinazione di questi due aspetti protratti nel tempo è un’altra ragione per cui ricerco questo tipo di performance. Se voglio arrivare in cima senza cadere, so che posso farlo. Se inizio a dubitarne, a esitare, allora è la fine. Uno stato mentale di insicurezza prosciuga la forza nelle dita. La paura può essere davvero molto limitante.”
Hai mai vissuto momenti in cui hai temuto di perdere la vita?
In Canada, quella volta che io e il mio compagno di cordata siamo rimasti coinvolti in una slavina. Stavamo scendendo in doppia e a un certo punto ci siamo accorti che la corda non ci sarebbe bastata per la calata successiva. Così siamo discesi arrampicando per un tratto, mentre la slavina veniva giù. Non riuscivamo a sentirci o a vederci. E allora ho temuto il peggio. Ho davvero rispetto per le valanghe, rappresentano un rischio altissimo quando si scala su ghiaccio. Poi alla Sud della Marmolada, sulla via del Pesce. Là posso dire che ho davvero rischiato di morire.
Puoi dirci cos’è successo sul Pesce?
Ero in cordata con Stefan Siegriest, il mio attuale compagno di vita. Ed eravamo anche la prima cordata dell’anno su quella via. A duecento metri dall’attacco il nostro tentativo era già finito. Nel cercare di prendermi a una grossa lama si è staccato un intero pezzo di parete. Ho fatto venti metri di volo con le protezioni che non hanno tenuto. La corda si è strappata in più punti, ed è stato un miracolo che non si sia spezzata. Mi sono ritrovata con la gamba rotta molto malamente. Ma c’è dell’altro.
Cioè?
Io so perché ho avuto quell’incidente. Non è stata solo sfortuna. Certo, anche quella ha contribuito molto; ha contribuito il fatto che volevamo fare la via in giornata, e dunque ci si espone di più assicurandosi di meno. Ma il fatto è che non ero pronta per quella via. Non mi ero informata bene, non mi ero portata dietro le protezioni giuste. Mio figlio Emanuel, che allora aveva quattro anni e mezzo, me lo aveva detto: “Non andare mamma.” E io non gli ho dato retta. Ero convinta di avere sette vite e non sono stata attenta a sufficienza sui tratti dove la roccia era marcia.
Quanto è cambiato in te da quell’incidente?
Sono stata costretta a una lunga pausa: primavera, estate, autunno, inverno. Un intero anno praticamente ferma, dopo cinque di continua attività. E mi sono fatta un sacco di domande. Ho cercato di analizzare tutti i perché. Dopo essermi ripresa dall’incidente, ho ricominciato a scalare. Ma è stato tutto un lavoro di ricostruzione a livello di fiducia. Ho dovuto imparare a fidarmi nuovamente di me stessa e del mio compagno di cordata. Del ghiaccio e della roccia. Ho dovuto persino riacquistare sicurezza nella corda. Agli inizi, anche le prese artificiali in palestra mi sembravano potessero venir giù! Quello che è cambiato in me è il fatto di ascoltarmi di più. Di dar retta al mio intuito. Certamente, ora la sicurezza viene al primo posto, non si può arrivare a dei compromessi. E se la situazione non è ottimale, allora preferisco stare a casa. Non sono obbligata a scalare tutte le vie del mondo in uno o due anni: questo era l’approccio che avevo prima, il pensiero di una ragazza giovane e motivata che non aveva mai subito incidenti fino al 15 luglio 2005… Poi le cose sono un po’ cambiate, appunto.
Ti sei mai sentita discriminata per il fatto di essere una donna che pratica uno sport che per molti non dell’ambiente è giudicato estremo, tanto più se sei mamma?
“Ancora adesso mi ritrovo a dovermi giustificare per il fatto che sono donna. Certo, non tra i climber, che sanno di cosa stiamo parlando. Ma di fronte alla gente che non sa, accade spesso. Se poi si aggiunge il fatto che sono anche mamma, sono ancor più sotto la lente d’ingrandimento. Quando mi sento dire che scalare è un mestiere pericoloso allora rispondo che a guidare la macchina il rischio è maggiore. Come dicevo prima, penso che il pericolo nell’arrampicata dipenda dalla preparazione, dall’esperienza, dal fatto di informarsi accuratamente sulle salite che si intende affrontare. Bisogna essere pronti a far dietro-front se non si è nella condizione ideale, o se le condizioni non sono buone. E forse questo è il punto più ostico. Io, comunque, devo decidere per due vite umane.
Hai mai pensato che dopo Emanuel avresti potuto smettere di scalare?
“Hmmm… nei primi tempi dopo la nascita di Emanuel ero molto paurosa. E come dicevo, quando si scala con la paura si rischia molto di più. Ora cerco di capire se sono nelle condizioni giuste. E se ci sono le condizioni, se decido che la cosa può andare, allora metto da parte il dubbio e scalo.
Ma non ho mai pensato di smettere di arrampicare. Diciamo che Emanuel ha cambiato i miei piani in direzione positiva. Per un certo periodo, non potendomi più concentrare sulle vie lunghe in montagna e sulle alte vette, per le quali avrei dovuto assentarmi troppo a lungo, mi sono indirizzata praticamente esclusivamente alle gare. Ho iniziato quasi per gioco, e mi sono appassionata. Non tanto per l’aspetto competitivo, che non amo. Ma, come già detto, per le esperienze umane e ovviamente perché in questo modo riuscivo ad allenarmi senza rinunciare a Emanuel.
La Hill, la Destivelle, la Mauduit, la Heargreaves… C’è qualche climber donna che ti ha ispirato?
Tutte loro, a dire il vero. Mi ispirano di più le realizzazioni al femminile. Perché sono ancora poche le donne nel mondo verticale che riescono a realizzare qualcosa di veramente particolare. Per gli alpinisti uomini è già più facile, anche perché scalano da più tempo. Però, il numero delle donne pronte a impegnarsi su vie difficili è cresciuto. Anche la realizzazione in rotpunkt è sempre più “alla moda” nel panorama femminile. Se mi guardo indietro, solo pochi anni fa, le ragazze scalavano in top-rope le vie più dure, ora questa situazione è parecchio cambiata. Penso che ci sia anche un ritorno alla montagna vero e proprio da parte dei climber in generale proprio per l’esigenza di riassaporare l’avventura, che viene a mancare dopo tanti anni di arrampicata sportiva.
A proposito di arrampicata sportiva, che ne pensi dei risultati di Josune Bereciartu?
Incredibili… magari avessi solo un po’ della sua forza. Ha innalzato il livello dell’arrampicata femminile, non c’è dubbio. Ma penso anche che sia una eccezione, assolutamente. Dubito che avremo altre come lei nel prossimo futuro. Sinceramente mi sento molto fiera quando guardo ai suoi risultati. Penso che sia la dimostrazione che le donne possano scalare tanto quanto un uomo, se non di più!
Se ti chiedessero di scegliere se legarti in cordata con un uomo o una donna, chi sceglieresti?
Direi, entrambi. Di solito mi diverto molto in cordate femminili, ma il problema è che spesso le ragazze preferiscono vie sportive in falesia, non in montagna. Trovare delle ragazze che abbiano lo stesso livello di preparazione in montagna, e che siano allo stesso tempo buone amiche, è praticamente difficilissimo. Anche sul ghiaccio, la maggior parte dei miei compagni sono uomini. Ma in linea generale il compagno o la compagna con cui scalo deve piacermi come persona, devo potermi fidare e divertirmi assieme. Per parecchio tempo ho scalato con Hansi Lochner, il papà di mio figlio. È stato lui che mi ha “iniziato” all’alpinismo e all’arrampicata. Anche se prima, andavo spessissimo in montagna a camminare, fare sci alpinismo o mountain bike con gli amici, tutti fisioterapisti come me! Con Hansi ho iniziato a scalare in Sud America, con lui ho realizzato Symphonie de Liberté 8a, primo rotpunkt in giornata, in quattordici ore. Poi purtroppo ci siamo lasciati. E allora ci sono stati altri amici con i quali ho continuato a scalare e sono stati fondamentali per la mia formazione e passione in montagna. Penso a Hari Berger e alla sua ragazza Kirsten Buchmann. Stefan Siegrist è il mio attuale compagno di vita, di cordata, di viaggio. Da lui ho imparato moltissimo sull’arrampicata di vie lunghe.
Eri con lui alla "Camillotto-Pellesier"?
No. Mi assicurava il mio amico Wasti che faceva il tifo dal basso. Mentre dall’alto mi sosteneva un altro amico, Rainer Eder, il fotografo. Mi sembrava quasi di essere in gara, ma solo con due buoni amici! Ero davvero molto motivata in quell’occasione e ho anche avuto fortuna perché il tempo è stato ottimo.
Pensi che le donne apriranno nuove e lunghe vie estreme su roccia prossimamente? Rientra anche nei tuoi piani?
Sì, è nei miei progetti. Ma non è facile trovare il posto giusto, dove non sia mai ancora salito nessuno. Per il momento però non ho nulla di concreto. Mi piacerebbe andare in Cina per scovare nuovi potenziali su ghiaccio e misto, magari aprire qualche via. E poi vorrei cercare di ripetere vie dure sulle Alpi o in Europa. Mi piacerebbe anche dedicarmi un po’ alle vie in fessura negli Stati Uniti. Come mamma ho comunque imparato a non fare progetti a lunga scadenza. Quello che so per certo è che non potrei più vivere senza montagne. Dopo l’incidente in Marmolada, nei lunghi periodi di inattività, o passati a rimettermi in sesto cercando di arrampicare al chiuso, ho capito che poter toccare la roccia, respirare la libertà che si prova a scalare su ghiaccio scegliendoti la tua linea personale senza doverne seguire una obbligata dalle protezioni, respirare il profumo delle montagne, viverci dentro, fianco a fianco, ora dopo ora, è qualcosa di irrinunciabile per il mio carattere. Solo avere il profilo dei monti sotto gli occhi mi rende più serena. Quando ritorno nel Wittenberg, dove sono nata e ho trascorso la mia infanzia, non riesco a reggere più di qualche giorno. Le città mi stancano, mi innervosiscono. Sono state le montagne a cambiarmi la vita. Io ho seguito la loro linea, e questa linea mi ha portato lontano, mi ha fatto crescere, diventare mamma, pensare alla vita con un’ottica completamente diversa. E spero di continuare a farlo per lungo tempo.