Blocco totale - Up-Climbing

Blocco totale

di Marzio Nardi
Pubblicato su UP2006
Chironico è a rischio chiusura, alla Chapelle da quasi un anno gli arrampicatori non sono visti di buon occhio, in val di Mello i pastori si proteggono dai climber spalmando il grasso sui blocchi. Il circo del bouldering rischia di essere boicottato e apparentemente niente e nessuno può arrestare questo processo se non, come sempre, la ragionevolezza degli arrampicatori.
Siamo molti e oramai ce ne siamo resi conto tutti: bastava essere a una delle ultime edizioni del Melloblocco, o a CresciaNo nei week end invernali, per comprendere che i sassisti non sono più uno sparuto gruppo con i pantaloncini in raso che scalano una pietra al rientro da Luna nascente o da un tentativo sul Capitan. I sassisti sono uno sbiadito ricordo di una generazione che è cresciuta e divenuta grande su altre superfici di pietra, più grandi, anguste, e talvolta scomode che nell’attesa o nella noia giocava sui sassi come ora giochiamo alla playstation.
Ora c’è il boulderista, quello col materasso, quello dei raduni da 2000 partecipanti, quello col gruppo, quello che ti esorta a provare qualcosa dall’emozione immediata. Il boulderista che senza sforzo arriva e s’impossessa di una pietra da spartire con altri e non osservare che quell’oggetto è spesso posato in un luogo che non gli appartiene in cui la sua libertà inizia dove rischia di finire quella del legittimo proprietario e la sua presenza spesso mette in pericolo un delicato ecosistema… Il risultato più che ovvio è quello della limitazione o alla chiusura dell’area che immaginavano solo nostra.
Prima di analizzare il problema delle chiusure di alcune zone dedicate al bouldering penso sia necessario osservare ciò che è accaduto nel caso dell’arrampicata in falesia e vedere se i due casi possono avere dei punti in comune.
La peste dei divieti d’arrampicata non è infatti cosa nuova, ancor prima di attaccare la comunità dei boulderisti, aveva cominciato il suo decorso con quella all’epoca più diffusa dei falesisti ed è quindi necessario partire da un analisi dell’evoluzione di questo fenomeno per poter capire se ci sono delle possibili soluzioni anche in un contesto bulderistico.
Basta digitare su google: “arrampicata + divieto”, per rendersi conto che le falesie negate alle dita di tutti, furono e sono tutt’ora moltissime sia in Italia che all’estero, ma i divieti sono spesso momentanei, stagionali o legati a questioni faunistiche di nidificazione o migrazione. In quest’ultimo caso, la cooperazione tra gli enti di tutela naturali e istituzioni come il CAI o associazioni sportive legate all’arrampicata, ha saputo ripartrire correttamente e ragionevolmente spazi e tempi nel reciproco rispetto. A tal proposito, in Italia, abbiamo l’esempio di numerose falesie del Lazio in cui l’arrampicata è consentita in certi periodi grazie all’intervento del Club Alpino che ha permesso una frequentazione stagionale scongiurandone la chiusura totale agli arrampicatori.
Analogamente alcune zone del finalese sono regolamentate grazie all’intervento dell’associazione “I finaleros” a cui fa capo Andrea Gallo.
Da trattative mediazioni e discussioni tra gli enti e le istituzioni, in linea di massima si è sempre giunti a un accordo di spartizione degli spazi secondo un regolamento che consenta a ciascuna comunità, sia questa di climber, bikers, o cacciatori (ahimè), di utilizzare una fetta di terra per le proprie attività. I tutti questi casi, i padroni dei terreni sono coinvolti solo marginalmente nella trattativa, vuoi perché le pareti e i sentieri sorgono in terreni demaniali se non in tratti di bosco abbandonato oppure perché la frequentazione è talmente ridotta da non creare disturbo.
Quando i problemi sono legati alla violazione della proprietà privata, la soluzione risulta molto più difficoltosa.
Nel caso di falesie che sorgevano su terreni privati, il problema si è risolto rapidamente con un cartello di divieto d’accesso al manifestarsi dei primi casi d’inciviltà. In Italia le uniche soluzioni a questi casi si hanno ad Arco dove il Comune, per ovvi motivi turistici, ha cominciato a risolvere le dispute acquistando, dov’era possibile, alcuni terreni posti alla base delle falesie. Soluzione diversa, ma sempre volta a risolvere i dissidi tra arrampicatori e proprietari, si è avuta a Finale Ligure, dove l’associazione “I Finaleros”, in accordo col Comune ha reso libero l’accesso a certe pareti esclusivamente a piedi per evitare gli ingorghi tra residenti e arrampicatori che spesso si verificavano nella valle di Montesordo.
L’intervento di organi in rappresentanza degli arrampicatori hanno quindi dato i loro frutti accontentando privati e praticanti nel rispetto reciproco. In entrambe i casi, due diverse organizzazioni si sono occupate della soluzione dei problemi in quanto tuttora non è presente un organo unico che si occupi della tutela dell’arrampicata in ambiente naturale soprattutto nei luoghi in cui questa è sempre più un fenomeno di massa
Nell’arrampicata in falesia la gestione è spesso più semplice, in quanto l’occupazione degli arrampicatori è limitata agli spazi alla base della parete, all’eventuale accesso, oltre allo spazio per il parcheggio.
Nel caso del bouldering la situazione risulta essere più complicata per il semplice fatto che la pratica spesso non è ridotta a un singolo sasso o una zona ristretta, ma a un area che può essere molto più vasta e il rischio di un’occupazione indebita di un terreno e il suo degrado è all’ordine del giorno. Assembramenti nelle zone circostanti ai sassi, spostamenti da un blocco all’altro ignorando le varie situazioni che li circondano, sono fattori che vengono ignorati quando i promotori di un luogo decidono di darne diffusione trasformandolo in uno “spazio per tutti” e collegandolo ai problemi legati all’afflusso.
Negli Stati Uniti, esiste l’Acces Fund che dopo essersi separata dal Club Alpino USA è divenuta praticamente l’organo ufficiale incaricato della gestione dell’arrampicata sportiva in siti naturali, risolvendo le dispute con i privati regolando l’accesso degli arrampicatori e spesso consentendo l’apertura di nuove zone o accordandosi per la chiusura di altre come a Hueco Tanks. Proprio in questo caso l’intervento dell’Access fund è stato determinante in quanto ha scongiurato il divieto totale dell’arrampicata consentendola accompagnati dalle guide in garanzia del mantenimento delle scritture rupestri che si trovano su molti sassi del caos.
A oggi l’Access Fund raccoglie svariate migliaia di sostenitori e innumerevoli sponsor che di anno in anno sostengono l’attività con donazioni che in alcuni casi superano i 50.000 dollari ciascuna, senza tenere conto dei media parteners, ovvero le riviste che danno visibilità agli sforzi dell’ente e agevolano la diffusione di informazioni relative a problemi legati ad alcune zone.
Chiaramente le ditte stesse si sono accorte dell’importanza della pratica su roccia e difendendola dalla limitazione salvaguardano un mercato in costante sviluppo. Queste prettamente le ragioni commerciali, ma tante altre quelle legate alla passione di molti manager delle ditte, che spesso continuano a essere dei climber. Climbing to climbers: l’arrampicata agli arrampicatori è una garanzia in più per cui lo spirito si conservi senza essere intaccato da speculazioni o atteggiamenti commerciali a senso unico
Tornando all’Europa, l’assenza di un organo simile non ha comunque smorzato gli animi degli scalatori, infatti abbiamo visto in precedenza i successi ottenuti sulle falesie grazie agli interventi di istituzioni o associazioni, ma nel caso specifico del bouldering, spesso a organizzazioni come i club alpini, il divieto d’arrampicata in una zona con “4 sassi” non crea particolare disturbo e lo stesso può dirsi per federazioni e associazioni sportive dedite esclusivamente alle competizioni. La difesa di questi luoghi e la loro regolamentazione è quindi abbandonata agli eventi o raramente all’interesse dei singoli.
Per portare qualche esempio, abbiamo il caso di Chironico, dove un gruppo di climber locali ha diramato un comunicato d’informazione a tutti i siti specializzati riguardo la delicata situazione di convivenza tra terreni privati, blocchi e arrampicatori che rischia di proibire una delle zone più ricche, in termini di sassi, che si hanno in Europa. Situazioni analoghe si sono avute a Maltatal e Magic Wood che risultano a costante rischio di chiusura a seconda del livello di civiltà espresso dai frequentatori
In nessun luogo, apparentemente alcuna trattativa è stata portata avanti con i privati coinvolgendo le amministrazioni comunali in un ottica di regolamentazione del territorio in un momento in cui la situazione ha raggiunto un limite insostenibile sia per i proprietari quanto per i climber che si vedono privati di uno spazio di pratica.
A parte la creazione di una istituzione che si occupi dei vari problemi della gestione della pratica in ambiente naturale, all’orizzonte non vi sono soluzioni per la gestione del bouldering se non l’iniziativa da parte di singoli o dei gruppi di arrampicatori impegnati a far comprendere che i principali garanti dei luoghi sono gli arrampicatori stessi con il loro comportamento.
Nel mondo dell’arrampicata gli ambienti coinvolti cominciano a essere molteplici: i praticanti, le ditte, i centri d’arrampicata, le riviste, e alcune istituzioni, ma spesso la loro frammentazione è enorme e, a giudicare dai comportamenti, ciascuno è intento a coltivare il proprio pezzo di terra. Se così dev’essere è quindi giusto che l’ormai crescente comunità dei sassisti (concedetemi il temine nostalgico), cominci a identificarsi meglio e realmente, attraverso una pratica consapevole e la diffusione di una “cultura” oltre che di un gesto. In questo senso, i primi a esserne coinvolti dovrebbero essere i centri d’arrampicata in cui “il sassismo” è fatto conoscere e utilizzato per aprire le porte all’attività su roccia soprattutto per il fatto che la facilità della pratica “su plastica” induce a situazioni “fast food” che si vorrebbero ritrovare anche all’esterno: vado quando voglio, trovo ciò che voglio, mi comporto come tutti gli altri appropriandomi di comportamenti che spesso rappresentano una pericolosa deriva.
In attesa di qualche ente che rappresenti il movimento dell’arrampicata sotto tutti i suoi aspetti regolandone la pratica, i luoghi in cui questa viene trasmessa devono assumersi la responsabilità di darne una visione più completa possibile da un punto di vista pratico e culturale.
Penso che lo stesso discorso dovrebbero sentirsi in dovere di farlo tutti coloro che ruotano attorno questo mondo.
Se non ci si riconosce in un ambiente in cui tutto debba essere controllato gestito e standardizzato, vi assicuro che c’è ancora molto spazio per vivere la propria arrampicata lontano da tutto e da tutti, maturando la consapevolezza di svolgere una pratica fine a se stessa tenendola lontano dall’interesse pubblico e rinunciando alla gloria delle notizie e delle belle foto. Chi decide di essere trainante (atleta, istruttore ditta o giornalista) si assuma in qualche modo le proprie responsabilità morali. Chi fa parte della mia generazione ha spesso sognato un mondo fatto solo d’arrampicata con sassi falesie e pareti attrezzate, questo ora esiste molto più rispetto a un tempo, ma ha un costo.
Il prezzo dipende solo da noi
 

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