
27 Giu Boulder d’Autore, Intervista a Damiano Andreotti
Fotografo professionista e ambassador del marchio Nikon, Damiano Andreotti non è lavorativamente legato all’arrampicata. La sua storia professionale parte come assistente e finisce per essere, al momento, un ricercato fotografo di moda, pubblicità e ritratto. Cosa lo ha portato quindi tra sassi e boschi a fotografare la Guida Alpina Stefano Perrone e a preferire spazzole e magnesite al suo studio fotografico? Damiano in realtà non è un “profano” dell’arrampicata. Nel tempo libero, quel poco che ha a disposizione, scala, prevalentemente con corda, mentre “la fotografia è staccata da tutto il resto della mia vita. Questa è stata una delle rarissime occasioni in cui ho potuto usare un ambiente naturale come fosse uno studio dove ho portato il mio stile in un mondo che conosco solo come hobby.” In occasione di un evento a Milano, lo abbiamo incontrato per farci raccontare qualcosa di questa curiosa esperienza che poi abbiamo scoperto, non era così figlia del caso…
Ciao Damiano, grazie della disponibilità. Partiamo subito dicendo che la tua attività come fotografo non è proprio incentrata sull’arrampicata. Da dove vieni quindi? Come ti sei formato e come sei arrivato a questa professione?
Dopo l’Accademia qui a Milano, ho fatto per tre anni l’assistente in vari studi e poi ho deciso di “camminare con le mie gambe”. Da anni mi occupo di moda e pubblicità come freelance, questo perché è un mondo dove l’apporto creativo personale può essere davvero forte. Andando avanti con la mia attività ho scoperto che la necessità di avere un confronto diretto col mondo reale per me diventava fondamentale per migliorare da una parte l’aspetto creativo e dall’altra per assumere una identità come fotografo. Quindi ho allargato il mio percorso col ritratto e a piccoli reportage fatti a livello personale.
Attualmente di cosa ti occupi primariamente?
Per il 60% del mio tempo lavoro su moda, pubblicità e tutto quello che gira attorno. Da circa due anni porto avanti un progetto di ritratti che in breve tempo è diventato anche un servizio per i miei clienti che mi richiedono e questo è stato di grande importanza sia in termini lavorativi che personali perché essere riconosciuto attraverso una luce ed uno stile particolare, è uno dei più importanti riconoscimenti per una persona che fa il mio lavoro.
E poi un giorno ti sei trovato immerso nel mondo del “boulder”. Come è successo e cosa hai provato a vedere gli scalatori fare così tanto sforzo “solo” per salire un sasso?
Per collocazione geografica, “l’arrampicata” è sempre stata vicina a me. Io sono biellese e le montagne biellesi sono un fulcro dell’arrampicata. Io non sono uno scalatore in senso rigoroso, sono più quello della “domenica” che punta alla birretta a fine giornata. Ho un caro amico che è Stefano Perrone che, al di là del legame che ci unisce, trovo sia proprio un bel soggetto dal punto di vista fotografico da immortalare. Il boulder mi ha consentito di lavorare come fossi in un ministudio, girando attorno alla persona, e non solo di schiena come spesso avviene.
Ti era già capitato di fotografare sportivi “in azione”?
Guarda, uno tra i miei primi lavori era con alcuni ballerini e io trovo incredibilmente affascinante poter raccontare un gesto che racchiude una storia che è magari di anni. Anni di preparazione, di sofferenze, di privazioni, e questo molto vicino a quello che accade nel boulder. Una fatica pazzesca per guadagnare anche solo 10 centimetri. E’ anche una metafora della vita se vogliamo.
Trovi quindi un legame tra fotografia e boulder?
Beh, nella mia fotografia di ritratto sì perché ho uno stile molto ridotto all’essenziale così come essenziale è il gesto del boulder.
A proposito di stile, ne hai uno molto chiaro, diretto e riconoscibile, fatto di bianco/neri marcati. Com’è stato portare questo tuo modo di fotografare nel boulder? Scelta consapevole o logica conseguenza del proprio essere?
Scelta assolutamente consapevole. La soglia tra successo e fallimento per me è portare sul display della macchina quello che ho in mente ed in questo caso mi ci sono avvicinato al 90% direi. L’occasione si è presentata per un test di un nuovo illuminatore dove ho cercato di isolare gli elementi significativi, una mano su una presa ad esempio, e chiudere al nero tutto il resto. Questo vuol dire l’essenzialità così come essenziale è il mio schema luci, spesso una sola, proprio per avere luci e ombre nette.
Gli arrampicatori (quasi tutti) cercano il “bello”. Il “bel” posto, la “bella” linea di salita, anche solo il “bel” movimento. Cos’è per Damiano il “bello”?
Faccio una citazione nota, “la bellezza salverà il mondo”. Come prima, il “bello” è qualcosa che non arriva per caso, te lo devi costruire, andare a cercare. Il bel posto lo raggiungi dopo un avvicinamento, la bella linea la trovi dopo duecento brutte, il movimento bello lo trovi quando lo provi per mille ore con sforzo in palestra. In fotografia è uguale. E’ una ricerca, di uno stile, una emozione, un’atmosfera, ed è qualcosa mai facile da trovare.
E come “contenuto”? Cosa cerchi e cosa vuoi comunicare con la tua fotografia?
Diciamo che cerco di comunicare quello che cerco a livello personale, che quasi sempre è una emozione, con una componente, come dicevo prima, anche estetica, in equilibrio. In queste foto ho cercato di chiudere l’arrampicata dentro ombre e dettagli proprio per mostrare ad esempio anche la solitudine dell’arrampicatore, perché di fatto sei da solo, un po’ come il nuotatore ad esempio, che ha davanti agli occhi una linea e basta. Ho messo anche una foto di Stefano che cadeva perché la caduta fa parte dell’arrampicata e ha un valore emotivo per lo scalatore.
Lo scalatore nella sua passione “cerca” la prestazione, il gesto, la sequenza di movimenti che magari riesce a fare solo dopo mesi (o anni) di preparazione. Hai anche tu una sorta di “ricerca” nei tuoi meravigliosi ritratti?
Allora, diciamo che in generale la mia fotografia è mirata a raccontare le cose belle che ci sono in questo mondo attraverso le persone che lo popolano. A me non piace fotografare la star in quanto male ma ad esempio perché ha dietro una storia, interessante, particolare. Non fotografo quello che emerge dai talent perché non ci vedo alle spalle storie interessanti, magari sì a livello umano ma non artistico, non per quello che lo ha portato lì. Mi piace il musicista che passa in studio mesi solo per provare un certo riff, quello che si alza presto per studiare, non quello che fa la star.
Ci sono degli elementi che ritieni affini tra fotografia e arrampicata?
Ti direi il “riprovare”, l’avere “costanza”. Pensa ad uno scalatore che non tiene una tacca e la riprova per decine e decine di volte. Lo stesso è per uno scatto dove provi e riprovi magari spostando una luce di 10 centimetri alla volta solo per trovare esattamente quello che cerchi. E poi credo anche i “tempi”. In arrampicata hai tantissimi tempi molto lenti, di studio o di preparazione, il tutto poi finalizzato magari a pochi o pochissimi secondi che ti servono per fare quella sequenza. Idem in fotografia dove magari ci metti molto a trovare la luce che vuoi, ad entrare in empatia col tuo soggetto e poi quando è tutto pronto, provi a tirare fuori quello che hai cercato in pochi secondi di posa.
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Intervista Stefano Michelin