19 Gen Climbing Hero: Ron Fawcett
“Qualche volta non importa cosa fai – quanto ti alleni duro o quanto scali. Qualche volta il destino ti dà semplicemente una mano, e ti spinge oltre.” Ron Fawcett.
C’ è qualcosa di magico e irresistibile nell’arrampicata britannica.
Le rocce che spuntano inaspettate dalla brughiera, scure, seriose. Scogliere a picco sul mare, umide e marce, con le loro avventure al limite del suicidio. Cave abbandonate, dove la vivacità degli arrampicatori contrasta con i carrelli arrugginiti, abbandonati sotto rocce lisce come lavagne.
Eppure tutto ciò ha un fascino e una bellezza che è difficile da spiegare… Forse perché sono l’emblema della passione, dello spasmodico desiderio di arrampicare a tutti i costi e di rendere questa disciplina la forza motrice della propria vita, senza se e senza ma.
È facile trovare il gusto per l’arrampicata quando ovunque abbondano le pareti, magari con il loro calcare frivolo, compatto, che brilla di mille colori illuminati dal sole. Ma quando pochi metri di roccia te li devi andare a cercare tra gli sfaciumi, sotto un cielo grigio per buona parte dell’anno, mentre l’umidità ti entra nel corpo e ti congela…beh tutto questo è inspiegabilmente, dannatamente eccitante. Se poi ci aggiungi un’etica che mette la sicurezza completamente in secondo piano per privilegiare la purezza, allora questa è la ricetta per un cocktail unico ed inimitabile.
Sono pazzi questi inglesi. Sono forti, carismatici, a volte irriverenti. Il loro modo di essere rispecchia le qualità della roccia e dei luoghi in cui arrampicano. Hanno carattere, personalità e non è un caso che moltissimi arrampicatori e alpinisti inglesi abbiano anche scritto pagine memorabili di letteratura di montagna, in cui la cronaca e la biografia sono intrise di grande carisma.
Limitandosi al solo mondo dell’arrampicata, ho divorato una dopo l’altra le biografie di Jerry Moffatt, Ben Moon, Johnny Dawes e Ron Fawcett, trovandole tutte ispiranti e motivanti.
Tra questi grandi simboli dell’arrampicata inglese, il punto di partenza non può che essere colui che ha ispirato le successive generazioni e che è stato il protagonista della nascita dell’arrampicata libera in Inghilterra, oltre che uno dei migliori climber al mondo per diversi anni: Ron Fawcett con i suoi celebri ditoni a banana.
Nato nel 1955 nella campagna inglese, nel tipico contesto rurale con la sua semplicità e difficoltà, fin dai primi anni Ron dimostra quelle qualità che da sempre hanno alimentato la passione per l’arrampicata. Il desiderio dell’esplorazione, fuori e dentro se stessi, l’esigenza della ricerca, dell’avventura, quella continua necessità di sfidare I propri limiti, affrontando innanzitutto ciò che sta fuori la porta di casa. Solo questione di tempo prima di scoprire l’arrampicata, che allora è ancora un qualcosa di poco definito, ancora legato all’alpinismo e senza una linea chiara nell’approccio alla disciplina. Scorrono rapide le prime esplorazioni all’arrembaggio quando non è ancora adolescente, in compagnia di amici altrettanto sprovveduti. I continui interventi di angeli custodi a limitare i danni di incidenti potenzialmente tragici o per attutire cadute da altezze notevoli in incoscienti free solo. Ron descrive tutto come se fosse la normalità, lasciando trasparire quell’entusiasmo che mai si sarebbe spento nella sua vita.
Gli anni scorrono veloci e, dalle prime esperienze al concretizzarsi sempre più profondo della sua passione, Fawcett si trova ad essere un climber tra i più forti e stimati nel panorama inglese. I dubbi sulla strada da seguire, in bilico tra lo studio, i lavori saltuari, le relazioni e una dedizione alla causa verticale, rappresentano quella complete interconnessione tra la vita “vera” e l’arrampicata, con tutti I suoi dilemmi, angosce e soddisfazioni. In compagnia di un altro grande climber inglese, il bizzarro amico-rivale Pete Livesey, Ron diventa un “atleta della roccia” sempre più affermato di una disciplina che si sta avviando ad essere uno sport vero e proprio, per quanto ancora legato ad esperienze profondamente introspettive. Fawcett la vive infatti in questo modo,
“Ho sempre pensato che una delle cose che attrae, negli sport, è che ti portano fuori da te stesso, lontano dai tuoi problemi, e così oltre il linguaggio”,
nonostante si trovi ad essere sempre in una tacita ma serrata competizioni con altri giovani emergenti, che lo considerano sia come un dio che come il riferimento da superare, con qualunque mezzo.
“I climber più forti di ogni generazione vorranno sempre scalare meglio di chiunque prima. Se necessario cambieranno le regole del gioco per riuscirci.”
Parallelamente all’attività in patria, il suo fervore lo porta a visitare i luoghi in cui l’arrampicata libera è nata, non solo nella sua componente fisica ma anche nel suo stile di vita innovativo, fuori da qualunque schema prestabilito e da qualunque convenzione sociale. Nel 1973 fa il primo viaggio in Yosemite, dove Camp 4 è la culla del free climbing, il regno di Jim Bridwell, Jeff Long, Lynn Hill e tutta una banda di climber hippy che, oltre a festini a base di alcool e altre sostanze, stanno aprendo vie sempre più visionarie sulle immensi pareti della valle. Oppure l’eleganza e l’estetica delle pareti del Verdon, anche qui con il relativo stile di vita e i confronti con i climber francesi (e non) che vi gravitano.
Un viaggio turbinante di entusiasmo, ardore, passi avanti uno dopo l’altro. Le vie che Fawcett apre in patria sono ponti per il futuro, dove oltre alla durezza mostrano sempre una grandissima qualità, la prima cosa che Ron cerca:
“Credo che talvolta gli arrampicatori dimentichino che tu stai cercando di creare qualcosa che gli altri possano appprezzare e sfruttare…Gli standard miglioreranno sempre, facendo di ciò che oggi è estremo una cosa normale domani, ma la qualità di una via rimane”
Nel 1979 sale la storica Lord of the Flies a Dinas Cromlech, che diverrà celebre anche perché immortalata nella serie video Rock Athlete (che potete vedere sopra): tre puntate che andarono in onda sui canali nazionali per far conoscere l’arrampicata al popolo. Nel 1980 un’altra pietra miliare, Strawberries a Tremadog, mentre nella scena britannica si fanno avanti climber come Jerry Moffatt e Ben Moon e la sfida inizia a farsi più serrata. Clamoroso l’episodio su Master’s Edge a Millstone: questa linea meravigliosa e pericolosa stava per essere liberata da Moffatt ma Fawcett non si fece problemi a soffiargli la prima salita, chiudendola in fretta e furia senza provarla prima dall’alto e con un volo quasi fino a terra in uno dei tentativi. Il leone stava ancora ruggendo per dimostrare che era ancora il re!
Eppure qualcosa stava iniziando a cambiare. Le prime gare arrivarono, non solo per concretizzare lo spirito competitivo dell’arrampicata:
“Credo che le competizioni fossero la logica conclusione per la nuova idea dell’arrampicata sportiva, e anche un modo molto comodo per coinvolgere interessi commerciali.”
Ron partecipa a SportRoccia a Bardonecchia, con i suoi itineri bricolati ad hoc e ne rimane sconcertato:
“Se questo doveva essere il futuro dell’arrampicata, e tutti dicevano che lo fosse, allora io non volevo averci niente a che fare”
Soprattutto capisce che l’arrampicata, da lui sempre vissuta come un tutt’uno con la vita personale, la natura circostante e la propria interiorità, sta andando lungo cammini in cui poco si identifica, anche nel modo di allenarla nei neonati “bunker” casalinghi.
“Stare al chiuso, oltretutto sottoterra, non faceva per me. Io ero cresciuto all’aria aperta, e solo in quel contesto mi sentivo appagato…Parte del fascino dell’arrampicata era anche il piacere di trovarsi in un ambiente naturale: il profumo delle felci, la sensazione della roccia sotto le dita, il vento sul viso. Non erano solo i movimenti duri che mi davano l’ispirazione, ma la linea di una via, la sua architettura. Poter guardare la falesia e vedere che avevi creato qualcosa. Per esser in grado di spingere il limite in avanti, mi sembrava, dovevi esser pronto ad abbandonare tutto ciò che c’era di piacevole e arricchente nell’arrampicata”
I dubbi, i problemi personali, il senso di non appartenenza ad un nuovo modo di intendere l’arrampicata, che per lui è sempre stata “…una parte molto profonda di ciò che sono”, lo allontanano dalla scena.
Nel 1986, sale in giornata 100 vie di grado E, più per trovare in se stesso una motivazione per ciò che l’arrampicata ha significato nella sua vita, che come ennesimo exploit. Infine, nel 1987 lascia il suo ultimo segno con un boulder impegnativo e pericoloso, Careless Tongue, gradato 8a fb.
Inizia l’abbandono graduale dell’attività, per ricercarne il senso in altre discipline, il parapendio e poi la corsa. Tutto resta connesso perché anche la corsa “…è solo un modo, come lo era l’arrampicata alla fine degli anni sessanta, per assaporare il mondo che esploro da ormai tutta la mia vita”
Questo è il senso che Ron ha dato al suo essere arrampicatore, corridore, padre, in una vita dove questi ruoli si sono amalgamati in rappresentazione unica, in cui le apparenti contraddizioni in realtà non sono che le sfaccettature armoniche di un individuo unico e irripetibile.
Proprio nelle parole che chiudono il libro troviamo la sintesi di ciò che Ron è stato…e che fanno comprendere come l’arrampicata non sia un semplice sport, ma qualcosa di ben più profondo…
“…è quell’esigenza di uscire dalla porta su retro e perdersi nella brughiera. C’è un senso di sollievo, di liberazione, in questo, per me. Sia che corra, sia che arrampichi. Ma in tutto questo ho sempre avuto il bisogno di una sensazione di spazio, di libertà, di essere me stesso. Ed è vero ora come allora. Sempre, anche durante I periodi più duri della mia vita, la brughiera e le rocce erano lassù, vicine, con la promessa di un nuovo orizzonte.”
Le citazioni riportate sono tratte dall’autobiografia di Ron Fawcett, “Mi chiamavano Banana Fingers”, pubblicata nella collana “I Rampicanti” di Versante Sud.
Alberto “Albertaccia” Milani