Passato, presente e futuro di Finale Ligure - Up-Climbing

Passato, presente e futuro di Finale Ligure

Com’era Finale Ligure alla fine degli anni ’60? Cosa voleva dire praticare e vivere l’arrampicata in quegli anni? Cosa, quegli anni, hanno lasciato ai posteri? Di questo e molto altro ancora si parla nel libro Un sogno lungo 50 anni di Alessandro Grillo. In questa intervista cerchiamo di fornire un piccolo scorcio di quel più ampio ritratto di Finale che Grillo dipinge nelle pagine del suo libro.

Ciao Alessandro, si può dire che tu sia uno dei principali artefici dell’arrampicata finalese, forse negli anni ’70 Finale ha scoperto l’arrampicata grazie a te. Sei stato tu ad aver avuto per primo insieme a pochi altri la visione di quello che sarebbe potuto diventare quel territorio. 

Oggi tra l’altro, in occasione del cinquantenario, sei in procinto di pubblicare un libro edito da Versante Sud dove racconti questa bellissima storia.

Puoi dirci come era il territorio di finale quando avete provato a scalare le prime rocce, insieme a Berhault, Grassi, Calcagno e altri?

Caro Roberto, ciò che mi chiedi, e ancora di più, viene narrato nel mio libro Un sogno lungo 50 anni. Tante cose ho vissuto, tantissime ne ho raccontate.

Tutto ebbe inizio in un’estate del 1968. Nella tabaccosa sede del CAI di Genova si raccontava che nel lontano Finale erano state viste, e pure salite, delle favolose pareti di chiara roccia colorata. A scalatori di grigio serpentino ed erba la notizia fece un certo effetto. A ottobre una fiat 500 a costosa benzina, partì con ferraglia di ogni tipo e due arditi:GianniCalcagnoe il suo garzone di bottega AlessandroGrillo. Il viaggio fu lungo, l’autostrada, pure lei costosa, si fermava a Savona.

Vedemmo le impressionanti scogliere di CapoNolie in un primo tempo andammo alle pareti dell’albenghese. Castel dell’Ermo fu la prima meta, vaghe notizie dicevano che la sua alta parete est era stata salita in due giorni con tanto di bivacco. Tra salti di roccia e boschetti pensili salimmo quella balza in giornata. La domenica dopo fu la volta di Toirano. La valledelVeroci colpì per la sua bellezza, si sapeva che vi erano grotte, ma quelle pareti grigie e gialle che si incendiavano alle luci della sera ci riempirono di entusiasmo. Quel microcosmo era talmente prezioso nella sua rara esposizione che frontalmente si pensò bene di aprire una delle più devastanti cave di pietra a balze.

Borghetto Santo Spirito andava pure cementificata!

Un tentativo sulla gialla parete del “Velo” ci consigliò di rivolgerci altrove, e così finalmente raggiungemmo il Finalese. Ai nostri occhi increduli si aprì un modo da scoprire e scalare.

Quindi già nel ’68 percepivate il disastro ambientale della cementificazione della costa. C’era una sensibilità ambientale da parte vostra?

Ma certamente! Ci muovevamo delicatamente in un mondo non nostro, per la massima parte privato, ove spesso i rari contadini che ci incontravano, mentre pulivamo gli antichi sentieri con il falcetto, ci accoglievano così: “Cose ghe fei chi? Anee via… Che chi le me!” (Che cosa ci fate qui, andate via… Che qui e mio!). Noi si ubbidiva, il dopo guerra aveva educato la nostra infanzia.

Com’era l’antropizzazione dell’entroterra?

Negli anni ’70 nell’entroterra regnava l’abbandono, ora invcece si ristrutturano le vecchie e caratteristiche borgate. In quegli anni gli abitanti dell’entroterra, ammaliati dalle nascenti fabbriche e cantieri, stavano abbandonando le borgate. Paga sicura, anche con la pioggia, e tempo per l’orto, la vigna e l’uliveto erano un richiamo imperdibile. Le piccole case a volta, costruite saggiamente pietra su pietra, iniziarono a sgretolarsi. Le caratteristiche fasce ove un tempo i ceci la facevano da padroni, furono invase da lecci intrisi di smilace e la vita iniziò a sparire da quei luoghi.

E il WWF, la lLIPU e le altre associazioni ambientaliste appoggiavano e sostenevano il vostro lavoro di pulizia e riscoperta dell’entroterra o non prendevano ancora in considerazione quel territorio?

Negli anni ’70 e ’80 WWF, Lipu, ambientalisti et similia, non si interessavano minimamente a questo problema, probabilmente non lo consideravano o lo ritenevano occasionale. Oggi vi è maggiore attenzione.

Il CAI oggi è quasi fuori dal gioco dell’arrampicata sportiva, a parte la scuola di arrampicata, e sulle falesie finalesi non si percepisce. Quando siete partiti appoggiava il vostro lavoro o già allora aveva posizioni critiche verso l’arrampicata sportiva?

Sono stato a qualche evento al CAI e al WWF, mi sono seduto nelle ultime file. Avanti a me 50 e più sfumature di grigio. Il Club Alpino oggi fa quello che è adibito a fare, allora, a Finale, credo non esistesse ancora.

Sei stato anche uno dei primi in Italia a concepire il poter mediatico dell’arrampicata, tanto che organizzasti una salita di Berhault al tetto di Coralie a Rocca di Corno, con tanto di pubblico e ripresa in notturna dalla RAI. Come la presero gli abitanti?

Con mio grande stupore quella indimenticabile notte del ’84, di arrampicata in notturna, con un Berhault danzante sotto al tetto di Coralie, vide una partecipazione entusiasta degli abitanti di Orco-Feglino. Oltre 1500 persone incredule, con il naso all’insù, applaudivano le esibizioni di quel fenomeno volante. Intervenne pure l’assessore allo sport della regione Liguria, che preferì, more solito, reclinare il capo su di un bel piatto di spaghetti alla marinara, assieme ai politici locali.

In tempi recenti, visto il boom economico locale, hanno avuto inizio i battibecchi. C’è chi dice che la roccia è poca, vista l’affluenza dei climber (così si chiamano ora gli alpinisti), chi dice che l’ambiente si deteriora, chi dice che ci vogliono regole, chi non le vuole. A breve tutti gli interessati si ritroveranno a discutere nel Comune di Finale, per cercare di affrontare lo spinoso problema, a meno che con la storia delle rocce iperchiodate, si voglia cercare di tener nascosto un fatto ancora più devastante ed economicamente più conveniente: il downhill.

A pensar male si fa sempre peccato e io sono un peccatore.

Non pensi invece che anche il fenomeno del downhill, seppur più impattante dell’arrampicata, sia un nulla in confronto alla devastazione della costa, dove i metri di terreno naturale quasi non esistono più, coperti da stabilimenti e cemento?

Collina su, collina giù, famoce due giri dice Elio, ma non nel Finalese, dico io. Salendo una stradina puoi incappare in un pulmino con carrello zeppo di bici, che non ti lascia passare. Se scende, buttati in una china. I “downhillisti”, debbono andare veloci, ovunque, sempre, anche se io non ne ho voglia. Non vorrei, ma a breve l’impatto sarà fatale.

A maggio si andava per “mazzin”, i porcini che crescono a maggio, ora è diventato pericoloso. Non sai mai che cosa ti possa piombare addosso! Altro business, altra “ratella”, ma niente in confronto alle betoniere, ove dentro vi sono troppi interessi e la “longa manu” della mafia. Lo dicono loro stessi: dove ci sono appalti pubblici, ci siamo noi!

Si sono aperte cave nei luoghi più belli per poi cementificare. Una su tutte la cava Ghigliazza, devastazione ambientale unica, che ora si vuole recuperare. Magari cementificando nuovamente con complessi residenziali, come già approvato dalla Regione Liguria. Cova ci gatta!

Che futuro vedi?

Ora un mare di sassi, di sentieri per bici, sta seppellendo, nel bene e nel male, palme, seggiole a sdraio e sandolini, e il tutto con un futuro ancora da inventare.

CAP

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