26 Set Un incrocio da Sogno
Pubblicato su UP2007
Antoine Le Menestrel
LA ROSE ET LE VAMPIRE
Prima salita: 1986
Apritore: Antoine Le Menestrel
Grado: 8b (uno dei primi 8b, se non il primo)
Testo scritto tra il 1986 e il 2007
Presentazione
La falesia di Buoux è tutta una storia, dalle prime vie aperte in artificiale con i chiodi fino alle vie di alto livello. Tra le tante storie, vi racconto la mia Buoux e il suo celebre tiro “La rose et le vampire”. Scalare è una storia che viviamo. La vita è un tiro. L’arrampicata ci rivela, attraverso lo specchio della salita, delle sfaccettature di noi stessi. L’altezza genera la sfida, il nostro compagno di cordata assicura la nostra vita. Ai piedi della parete la scelta di un tiro esprime un desiderio. Scelgo un universo, una difficoltà, un impegno, la bellezza di una “linea”, la sua storia…
All’interno di queste esigenze si esprime il mio desiderio di scalare, quasi una fame primitiva.
Buoux è un luogo magico. Se il desiderio cresce dentro di me vuol dire che una storia vissuta emergerà alla superficie del mio essere, come delle bolle di champagne in un piccolo angolo di paradiso dove l’Aiguebrun scorre tutto l’anno.
La storia
La vita a Buoux è cominciata all’età della pietra, 125.000 anni fa. L’uomo di Neanderthal ci ha vissuto per un periodo di circa 90.000 anni. Nel neolitico, verso il 6.000 a.c., dopo l’ultima glaciazione di Wurm, vennero utilizzate delle grotte come luoghi funerari: quasi 200 tombe sono state scavate direttamente nella roccia.
Durante l’Alto Medioevo la vallata dell’Aiguebrun fu senza dubbio un luogo per eremiti, sicuramente influenzato da una forma di ascesi che ha origini in Siria: lo stilitismo (dal greco stylos: colonna). Questi “atleti di Dio” vivevano in cima ad alte colonne nell’assoluta immobilità. Le vasche, le scale, i buchi delle travi e i canali potrebbero essere attribuiti a loro.
Dopo studi scientifici si pensa che quegli intagli nella roccia siano stati collocati nel IX secolo (epoca Carolingia), durante i periodi di sovrappopolazione.
La roccia
La roccia è formata da molassa urgoniana che data del Miocene (da 25 a 12 milioni di anni). È una roccia sedimentaria, nata dalla successiva stratificazione di depositi marini: scalando un metro di roccia si attraversano una ventina di millenni di storia della terra. La roccia di Buoux è unica e ricercata: priva di fessure, resiste al gelo e dunque al tempo. Il suo nome latino è mola e deriva dal suo utilizzo per ricavare le macine dei mulini. Le forme della falesia sono tondeggianti e calorose, per non dire voluttuose e colorate.
L’apertura
Nel 1985 Laurent Jacob, Jean Baptiste Tribout, io e mio fratello Marc, eravamo alla ricerca delle linee più estreme realizzabili.
È stato Laurent Jacob, che aveva una passione inesauribile per aprire le vie, a iniziarci alle gioie della chiodatura; scoprire una linea, attrezzarla al meglio in modo che gli arrampicatori avessero voglia di ripeterla, infine avere l’onore di lasciare il proprio nome ai suoi piedi dopo averla liberata. Perfezionava continuamente i suoi attrezzi; staffa, punzone allungato, perforatore a mano e portava con sé anche dei chiodi a disposizione di tutta la banda di chiodatori. Non volevamo forzare un passaggio creando un tiro di sana pianta, ma cercavamo di adattarci alla roccia seguendo il cammino verso il quale lo spartito minerale ci conduceva. Non si trattava di sfruttare un pezzo di roccia, ma di seguire il richiamo di una bella linea. È un onore per noi chiodatori entrare in contatto con uno spazio vergine. Ne restano pochi sulla terra, sono preziosi.
Il nostro lavoro di chiodatori è di domare la roccia nuda e di continuare la creazione naturale trasformandola. Ecco quello che io intendo per essere creativi nell’adattarsi alla roccia…
Mentre ci calavamo dall’alto, una domanda ci assillava: ci sarebbero state prese sufficienti? Questa era l’incognita più grande.
Il giorno in cui sono sceso per la prima volta, meraviglia, le prese c’erano, ma erano troppo piccole per salirla a quell’epoca. Malgrado tutto, la foga di arrampicare mi spinse a consolidare alcune prese e a migliorarne altre; tuttavia nessuna presa scavata sorge dal nulla. Era la roccia a dettare il mio lavoro, ma io aggiungevo una parte creativa ai passaggi.
Non c’era un limite tra il miglioramento/consolidamento delle prese e la misura delle stesse! Il mio apprezzamento personale era il mio unico giudice. Quando ho attrezzato questo tiro gli ho dato una direzione, verticale, e già in questo senso sono intervenuto. Successivamente ho lavorato le prese affinché non facessero male. Prima dell’avvento dell’arrampicata libera questa pratica non esisteva, si interveniva raramente sulle prese perché non si lavoravano i tiri, ma con l’arrampicata sportiva risultava inconcepibile ripetere un movimento su una presa tagliente.
Per me, migliorare le prese costituiva una mancanza di rispetto per le generazioni future. Aprivo il tiro per la linea, i movimenti, la sfida. Poi sono passato da una dimensione individuale a una dimensione culturale perché ho legato “La rose et le vampire” alla comunità degli arrampicatori.
La voglia di esprimermi scavando un tiro sarebbe però risultata fine a se stessa. Non si poteva avere tutto. Dopo questa esperienza ho pensato che avevo forzato troppo la roccia: non ero più creativo nell’adattarmi alla roccia ma diventavo creatore di vie.
È stato l’avvento dei muri artificiali che mi ha permesso di incanalare questa creatività: in falesia, avrei continuato ad aprire tiri rispettando il terreno di gioco. Potevo creare sul pannello, che diveniva un supporto vergine dove sfogare i miei sogni inappagati di vie originali. Sono diventato così creatore di vie artificiali e primo tracciatore internazionale per le gare.
Questo ha significato una seconda rivelazione, perché mentre creavo un tiro su struttura artificiale disponevo le prese scrivendo uno spartito gestuale la cui drammaturgia veniva rivelata dagli atleti. Questa scrittura gestuale si traduceva in movimenti, in squilibri, in impegno. Questo mi ha portato a classificare le sequenze a seconda del tipo di difficoltà che potevo incontrare. Ho scoperto così di essere un coreografo!
Evitare le prese scavate
Ciò che mi piace dell’arrampicata libera in ambiente è l’entrare in relazione intima con la roccia. Meno interventi umani ci sono, atti volontari di creazione delle prese sulla roccia, più il mio animo può essere in comunione con lo spirito della roccia. Le prese scavate presuppongono invece una relazione con chi ha aperto il tiro.
Da allora ho incominciato a eliminare le prese che avevo scavato.
Mi sono appassionato al gioco di eliminare le prese scavate almeno quanto quello di colorare di giallo i chiodi e di usare solo le prese naturali.
Eliminare le prese scavate significa:
– rendere la roccia simbolicamente più simile al suo stato iniziale.
– godere di questa purificazione.
– esaltarsi nella gestualità di un movimento naturale.
– far nascere in noi uno slancio creativo.
Agli inizi dell’arrampicata libera ci divertivamo a dipingere di giallo i chiodi che non servivano più per la progressione artificiale. Parallelamente mi sono reso conto che non sopportavo di scalare sulle prese scavate, non percepivo il piacere del movimento e della sua relazione con il minerale.
Partendo da questo presupposto ho giocato a ripetere le vie di Buoux senza le prese scavate e ne ho realizzato una guida. Ho constatato che ci sono addirittura dei tiri che risultano più facili senza le prese scavate e che si possono catalogare gli stili di scavatura! Ho aggiunto “La rose et le vampire” nella guida delle vie ri-liberate senza prese scavate perché avevo intenzionalmente allargato un bidito per far sì che anche i più bassi potessero fare il tiro. Intervenendo su una presa agiamo in modo irreparabile.
Questa fu una vera e propria presa di coscienza: la presa è il tallone d’Achille della scalata. Una presa è preziosa come una pietra, “la presa preziosa” ci mette in relazione con il pianeta: ripercorriamo il tempo scalando sul calcare. Quando cominciamo un tiro torniamo indietro di diverse migliaia di anni, mano a mano che saliamo ci avviciniamo al presente.
Trovo altrettanto bello che questa attività riposi su qualche centimetro quadrato di minerale. Se un pazzo o un terrorista dovessero rovinare le prese sarebbe irreparabile. In definitiva l’arrampicata si basa su di un tacito consenso, nessuno ha mai messo per iscritto l’etica dell’arrampicata. Un silenzio che fa sì che la nostra disciplina esista per sempre.
Un incrocio da sogno
Quest’attitudine creativa mi ha permesso di scoprire “l’incrocio della Rosa”, un movimento che non esisteva nel vocabolario dell’arrampicata: il braccio sinistro si muove per prendere una presa molto lontana a destra, tanto che spinge la testa sotto il braccio destro; questo movimento ha aperto la mia vista sullo spazio e sul mondo che mi circonda, creando una relazione tra chi fa sicura e chi arrampica. Grazie a questo inedito movimento ho scoperto una nuova dimensione dell’arrampicata, che mi faceva presagire che un giorno sarei diventato artista d’arrampicata. È un movimento fondamentale perché mi permette di essere in alto e di creare comunque una relazione con il pubblico. Questo movimento è diventato inscindibile dalla mia danza verticale, dunque l’ho esportato su palcoscenici e muri delle città.
Come avrete capito, questo tiro ha contato molto per me, mi ha trasformato e ha cambiato il corso della mia vita. La pratica dell’arrampicata evolve senza sosta e la ricchezza della nostra attività risiede nella diversità degli approcci, a ciascuno il suo tiro.
Elegia della presa
La presa è l’appiglio sul quale si fonda la nostra pratica, l’arrampicata nasce alla prima presa e muore all’ultima presa.
Senza prese non esisterebbe lo scalatore, è tra due prese che viviamo l’arrampicata.
Ogni presa è unica e fa parte del patrimonio minerale come di quello motorio dell’arrampicata. Allo stesso tempo rappresenta il punto debole di questa disciplina, possiamo volontariamente romperla, ingrandirla, tapparla, scavarla, ritapparla, riscavarla…
Le prese sono alla mercé del volere dell’apritore e degli arrampicatori.
Hanno anche una vita propria, si usurano col tempo, si rompono per le continue prensioni, appena dopo la pioggia diventano particolarmente fragili.
La tendenza di un tiro è quella di diventare sempre più duro e unto.
Una presa si usura con i passaggi ripetuti, è costantemente vittima del suo successo. È la vita del tiro quindi dobbiamo essere educati con lei, accettarla per quello che è, pulirci i piedi e scalare con delicatezza.
Una presa ha la sua forma, la sua dimensione, il suo orientamento, il suo colore, è una nota sul pentagramma minerale e noi siamo dei danzatori che interpretano questa coreografia. Noi siamo come un sasso che rimbalza sulle prese.
Ogni presa ha la sua vicina. Le prese “escluse” non esistono in arrampicata. Una presa lega tutti gli scalatori, è il nostro punto di contatto sul quale lasciamo sudore e sangue, gomma e terra, magnesite e resina. La presa è portatrice dell’ignoto, del movimento che genera.
La presa è portatrice di una sorpresa.
Le Bout du monde
La prima volta che ho scoperto questo luogo è stato dopo aver tagliato un albero per liberare la partenza della Fissure Serge. Abbiamo preso in prestito un masso inclinato, quasi una rampa di lancio che ci ha permesso di scoprire il “Bout du monde”. Un luogo magico! Degli imponenti blocchi di roccia inondati dal sole adornavano i piedi del tiro emanando dai loro pori un profumo sabbioso dai colori desertici.
Mi ricordo: il sole tramontava lentamente, gli ultimi raggi luminosi si intrecciavano. Sbucavo da una cornice silvestre che si apriva su quell’angolo di mondo teatro di numerose battaglie: ero lì per arrampicare. Tutta la vivacità e l’energia accumulate nel corso della giornata si proiettavano su quel tiro. Nel corso dei diversi tentativi mi battevo sempre con la stessa tenacia e la stessa rabbia nel desiderio di riuscire movimento dopo movimento. Prima di ogni tentativo officiavo un rito propiziatorio. Pulivo le prese. Le prendevo nelle mani, le massaggiavo sotto le dita per ammansirle e prepararle allo sforzo che sarebbe seguito. Facevo prendere loro confidenza affinché l’influsso fosse pronto a sgorgare.
Mi preparavo a terra, sopra al masso appoggiato in equilibrio. Il materiale era sistemato ordinatamente in modo che non potesse interferire con l’ascensione. Mi legavo al mio assicuratore/complice che teneva la mia vita tra le sue mani. Durante la mia salita dava corda al suo aquilone umano. Con un gesto secco facevo lacrimare la gomma delle mie scarpette. Non mi restava che mettere da parte tutto quel borbottio cerebrale e tornare in simbiosi con gli elementi: la partitura minerale, l’aria, il vuoto e il soffio del mio respiro. Ogni volta cadevo a qualche metro dal suolo. Mi domandavo cosa mi spingesse a riprovare senza sosta. Ero forse nato per liberare quel tiro? Non avevo scelta, lui faceva parte di me, ma in ogni caso una vita non poteva riassumersi in un movimento. Mi sentivo piccolo.
Dopo i primi bloccaggi impegnativi, raggiungevo rapidamente le prese del passo chiave, un incrocio da sogno su una placca di roccia ocra che aveva la conformazione di un quadro o dello schermo di un cinema. Cercavo di fondermi con lei tenendo le mani ai bordi del quadro. Mi mancava la sensazione di essere in un “gran giorno”, uno stato di grazia che cercavo incessantemente di suscitare.
Poco a poco le ombre si allungavano, non restava che un ultimo raggio di sole, lo spettacolo stava giungendo al termine e gli attori erano stremati, frustrati. Saremmo tornati domani o più avanti, per qualche giorno avremmo lasciato riposare il tiro.
Ai piedi di “La rose et le vampire” un nugolo di moscerini volava al di sopra dei castagni verdi illuminati dall’ultimo stralcio di luce. Ho visto in controluce una capra che saliva dietro un albero in cima alla falesia, era un buon segno. La sezione difficile fu superata in un soffio, avevo bucato lo schermo.
In cima alla rosa il sole spariva dietro la falesia, era un altro buon segno. Non era che una tappa: la via continuava senza di me.
“La rose et le vampire” è uno dei tiri più famosi del mondo, ne sono fiero. In qualità di artista/scalatore la considero un’opera creata dall’alchimia di una falesia, di un autore e di un movimento: “l’arrampicata libera”.
Al di là della sua arrampicata questo tiro ha una storia propria, arricchita da tutti quelli che l’hanno salito. Il vampiro è la via, la rosa è per voi.