Alberto Gnerro - Up-Climbing

Alberto Gnerro

Maurizio Oviglia, UP2006
Dopo più di 20 anni di scalata, Alberto si avvia a divenire un’icona dell’arrampicata europea. Nato nel 1969 a Biella ha iniziato a scalare nel 1986 ed è subito stata una passione folgorante. Biella è sempre stata una cittadina dinamica e intraprendente e l’alpinismo e l’arrampicata di marca biellese non sono sfuggiti a questa regola. Sulle orme dei pionieri della sua cittadina – senza dubbio più discreti di quelli valsusini e torinesi, ma non per questo meno forti – Alberto muove i primi passi sulle pareti della bassa Valle d’Aosta. Ma l’apprendistato dura poco: nel 1986 sale la mitica Transea, un 7a di riferimento, ad Arnad. In pochi mesi guadagna due gradi e così nel 1987 è già sul 7c+, con Krudelia ad Ara, salita in una giornata freddissima. Il suo stile è molto particolare e, come già nel caso di Marco Bernardi, privilegia i passaggi statici, sinonimo di grande forza e sicurezza. Ma nonostante la sua forza sia fin da subito divenuta una leggenda, Alberto si dedica a sorpresa all’arrampicata tecnica e alle on sight, suo grande cavallo di battaglia nei primi anni della sua carriera. Nel 1988 stupisce tutti salendo a vista J’irai cracher sur votres tombes a Buoux, niente meno che 7c+. Sembrerebbe già tanto, ma nel 1989 la sua progressione non si arresta. Continuano a impressionare la comunità italiana (e i pochi stranieri che assistono alle sue performances) soprattutto le on sight, particolarmente quelle sui muri tecnici e apparentemente incomprensibili, disseminati di boulder di dita come in un campo minato. Punte di diamante sono le on sight di Margarina (8a) ad Andonno e Mamy avvista (7c) a Finale. Tuttavia in questo periodo non trascura il lavorato, e raggiunge l’8b+ salendo Noi (8b+, lo stesso giorno dell’onsight su Margarina). Poi le salite che lo hanno reso celebre nella sua adolescenza di scalatore, e cioè l’on sight di En un combat douteux a Cimai (8a) e soprattutto di Outsider (8b) a Cornalba, nel 1990.
Nel 1989 fa il grande passo ed entra nel mondo delle competizioni, dove otterrà lusinghieri risultati nei campionati italiani (campione italiano nel 1989, 1990, 1992) e buoni piazzamenti in Coppa del Mondo.
Arrivano gli anni novanta e Alberto si divide tra falesia e competizioni. Le on sight di rilievo le riserva ai viaggi, dove sale ancora diversi 8b. In questo periodo spicca senza dubbio la salita a vista di Kryptonite (8b/b+) al Tetto di Sarre, che diverrà il suo laboratorio per l’alta difficoltà. Qui nel 1998 raggiunge l’8c+ con L’avaro, una via fisica e di super-resistenza, che sembra essere il suo nuovo terreno. Altro suo campo di battaglia è il Cubo di Arnad, niente più che un gigantesco cubo di gneiss nella bassa Valle d’Aosta, dove Alberto attrezza e sale vie durissime, divenute celebri e temute anche a causa delle valutazioni, non proprio generose.
Il nuovo secolo inizia alla grande e Alberto consolida il livello 8c+ ripetendo Noia ad Andonno, l’8c+ di riferimento italiano. Poi si supera con Ground Zero a Sarre, per cui scomoda la cifra del 9a, il primo italiano, confermato poi da Christian Bindhammer.
A questo punto, all’apice della sua carriera, sembra accusare una crisi motivazionale causata da mancanza di nuovi stimoli. Complice l’amicizia con Marzio Nardi e Cristian Brenna “scopre” il bouldering nel periodo della new wave di questa disciplina, e anche qui riesce a regalarsi delle belle soddisfazioni che lo rivitalizzano. Nel 2001 sale la famosa Boule a Cresciano e La scelta, sui blocchi alla base del “suo” Cubo, entrambe 8a boulder. Diventato tracciatore, molto apprezzato per la sua competenza ed esperienza nei circuiti internazionali, Alberto trova anche di che tracciare sulla roccia vera, questa volta con rinnovato amore per “Madre Natura”. Nel 2003 mette infatti mano alla falesia di Gressoney, sempre in Valle d’Aosta, che gli regalerà delle belle soddisfazioni negli anni a seguire. È infatti del 2003 l’8c di Lucky man, mentre nel 2006 arriva il suo secondo 9a, tutto naturale, chiamato SS26.
Di carattere introverso, poco incline all’autocelebrazione da buon piemontese qual’è, si può dire che Alberto è senza dubbio uno dei più grandi arrampicatori dell’era moderna. Come lui stesso dice di sè, rappresenta la liason tra l’epoca dei pionieri dell’arrampicata sportiva (Mariacher, Manolo, Bernardi) e i moderni campioni di oggi, cresciuti sulla resina e venuti alla ribalta con le competizioni. Ma la sola forza non basterebbe di certo ad assicurargli un posto di rilievo nella storia dell’arrampicata europea, i numeri evidentemente non bastano! Sono i nomi delle vie che ha scelto a farci abbassare il cappello, ma soprattutto il suo stile e il suo modo discreto di intendere l’arrampicata di alto livello – quasi fosse una disciplina orientale, un’arte marziale a cui dedicarsi anima e corpo – a essere un esempio per molti giovani d’oggi, gli stessi a cui Alberto ha deciso di dedicare il proprio tempo lavorativo nella sua nuova scuola di arrampicata.
Alberto, hai scritto che hai incominciato a scalare dopo aver visto un video di Edlinger. E penso tu non sia l’unico! Credi che oggi sia ancora così potente l’identificazione in un personaggio mitico, oppure l’assenza tangibile di figure carismatiche non permette più questo genere di esperienze?
Mi è difficile dire se gli atleti e i personaggi di oggi possano influenzare in maniera cosi forte le nuove generazioni. Credo che una sorta di emulazione in ogni caso si tramandi attraverso le generazioni, anche se quell’alone di misticismo e scoperta che si viveva nei primi anni ottanta non esiste più. Ci sono ancora figure carismatiche anche se effettivamente i ruoli sono meno forti di un tempo.
La prima cosa a cui si pensa quando si sente il tuo nome è la forza. Ma per quelli già un po’ stagionati come me, il pensiero va invece alle tue leggendarie on sight sull’8a e oltre. A esempio la tua bella onsight su Margarina ad Andonno ha lasciato senza parole chi pensava che fossi solo un “tiraprese”. Perché scegliesti proprio quella via, così difficile e complessa? Ci puoi raccontare come andò?
Sicuramente i miei genitori mi hanno dotato di un buon motore e molte volte l’ho sfruttato al massimo, un po’ come faccio con le macchine. Io, poi, ho fatto il resto mettendoci dentro una benzina sana che si chiama voglia, motivazione, entusiasmo. Ho sperimentato molto su di me a riguardo e, anche sbagliando molto, i risultati sono comunque arrivati. D’altronde il muro personale dove allenarmi è arrivato solo nel 1991 e fino ad allora i miei allenamenti settimanali erano a base di trave. Sicuramente grazie a questo ho fatto performance che ancora oggi sarebbero attuali. Margarina è una di quelle. Era una bella giornata di sole ad Andonno, un sabato se ben ricordo. Tre giorni prima Andrea Gallo aveva liberato quella fantastica linea di 8b+ che aveva preso il nome di Noi. Ero lì per ripeterla e cosi feci! Ero molto contento della mia realizzazione ma quel giorno mi sembrava di avere le ali ai piedi… era l’undici di novembre del 1989! Parlai con il mio compagno che quel giorno era Federico Bausone e, non pago di ciò che avevo fatto mi diressi verso il settore centrale di Andonno. Prendendomi i rischi per un progetto un pò presuntuoso, decisi di provare a vista Margarina. Mi sentivo bene e soprattutto sereno per cio che avevo già fatto. Con un pò di fatica infilai ai piedi un paio di Kendo, appena tolte dal loro involucro originale, un grosso rischio per una via del genere. Ma non ci pensai e la mia concentrazione era al Massimo… partii con decisione e in uno spazio di tempo che vale mezz’ora mi trovai in cima, alla catena della via. Fu una grande giornata per me, ma la soddisfazione più grande rimase comunque legata alla salita a vista di Margarina.
Forse l’arrampicata on sight è lo stile più puro, e senz’altro come affrontavi gli 8a negli anni Ottanta lo era. Ricordo che addirittura Moffatt non si calò su Papy on sight per non vederla. Ma oggi, con video e prese segnate, è ancora così? Secondo te non si sta perdendo un poco lo spirito della sfida pulita?
Sono sempre stato molto etico e non sono mai andato alla ricerca di vie facili da fare. Non erano di mio interesse le vie sovragradate e tante volte sono stato criticato per il fatto che svalutavo le vie fatte. Mi sembrava veramente stupido raccontarsi delle storie e certamente questo atteggiamento non faceva i miei interessi. Ho fatto molte vie dure a vista e le ho fatte senza segni e senza sbirciare. Oggi quel tipo di salita cosi severa si è sicuramente persa e molte di quelle che vengono chiamate performance non sono poi così pulite ed etiche. Un esempio per tutti: i segni vicino alle prese. Forse un climber medio non ne trae un vantaggio così grande, ma per quelli esperti una via segnata è un libro aperto e le possibilità di errore che ne deriverebbero da una lettura personale diminuiscono in maniera esponenziale.
Ma questo non riflette, secondo te, una minore attenzione generale all’etica? A esempio quindici anni fa nessuno avrebbe dichiarato pubblicamente che una via fosse più facile, anzi! Forse c’era anche troppa severità! Oggi è quasi il contrario. Perché, secondo te, forse conta di più il risultato? L’immagine mediatica?
Credo che la generazione a cui appartengo abbia fatto un grande salto di qualità in questa ultima decade ma sicuramente non in maniera così esponenziale come potrebbe sembrare. Noi siamo migliorati e i gradi si sono un pò avvicinati. Se questo miglioramento continuasse di questo passo tra qualche anno ci troveremmo a fare il 9a+ a vista… il che richiederebbe delle pillole antigravità! In tutti gli sport i miglioramenti procedono a piccoli passi e il record di Pietro Mennea (un esempio per tutti) resistendo per vent’anni lo dimostra. Quando il primo aprile del 1990 a Cornalba arrivai in cima a Outsider (8b) a vista, scendendo dissi molto umilmente che mi sembrava più facile. Quanti oggi si tirerebbero la zappa sui piedi come feci io al tempo? E fui persino criticato! A me non è mai interessato rubare performance e il grado 8b non è proprio il trekking della domenica… anche per atleti forti! Il risultato nello sport da sempre ha avuto valore, senza di quello scompare la componente agonistica necessaria per migliorare, ma bisogna essere obiettivi e saperlo identificare. Nell’arrampicata non esiste il cronometro!
Ricordo di averti visto arrampicare in gara molti anni fa e mi colpì il tuo stile, assai poco dinamico. Credi che questo sia uno svantaggio o una qualità? O forse un retaggio che ti porti appresso dai primi anni?
Era una mia caratteristica dettata dal fatto che su ogni presa ci potevo stare molto tempo. In ogni caso uno svantaggio. In gara un anno mi ricordo che avevo fatto scadere il tempo sette volte di seguito. A un Rock Master passai 25 minuti sulla via a vista dopo di che mi dissero che era scaduto il tempo. Oggi il mio stile è molto cambiato e soprattutto grazie al boulder che mi ha dato quella dinamicità e quella velocità che sono necessarie per fare vie molto dure. Ma anche il mio atteggiamento psicologico è cambiato. Oggi sono un atleta maturo sicuro di sè e in grado di leggere le forme della roccia molto velocemente.
E ora veniamo alla forza. Come è cambiato negli anni il tuo atteggiamento verso questa importante componente della scalata?
La forza è sicuramente il punto di partenza per fare dei grossi risultati e non mi sto riferendo solo al nostro sport. Oggi a 37 anni la mia forza rispetto a 5-6 anni fa è un pò diminuita ma continuo comunque a coltivarla. In più oggi ci aggiungo una componente dinamica che è fondamentale per la riuscita.
Una leggenda metropolitana che è giunta sino alle mie orecchie, narra che in un periodo non molto lontano arrivavi in falesia e usavi scaldarti su un 7b. Se andava rimanevi, altrimenti tornavi a casa stizzito. Al di là della veridicità di quanto ho sentito, è vero che tu hai sempre sofferto un po’ di ansia da prestazione? Potrebbe essere questo il motivo per una certa tua predilizione per le on sight, almeno nei primi anni?
La mia arrampicata all’inizio era molto capricciosa e si ispirava a un disegno infallibile. Non erano concessi sbagli e, se arrivavano, la giusta punizione era tornare a casa. Ma poi si cambia. Ti abitui a sbagliare e ad accettare quello che viene. Ma non sono l’unico, ti assicuro, e ancora oggi ogni tanto vedo di queste scene. Guardandole mi rivedo e mi viene da ridere pensando al tempo che si perde commiserandosi per una sconfitta.
Sul tuo sito ho letto una frase sull’amicizia che mi ha incuriosito. È vero, l’amicizia in arrampicata va e viene e ogni tanto qualcuno resta… ma ti sembra che qualcosa sia cambiato dall’era del “compagno di cordata” a quella attuale del “branco”?
Il compagno una volta era la sottile linea bianca che ti univa al terreno e ti dava il massimo della fiducia quando salivi. Una salita dura era le gioia di tutti e due. Oggi mi sembra quella figura sia un po’ scomparsa e spesso, solo per arrampicare, ci abituiamo a scalare con chiunque. Ma questo è anche un bene perché ci permette di conoscere gente e allargare i nostri orizzonti. Comunque gli amici di allora sono rimasti e oggi grazie alla sala che ho aperto a Biella c’è una sorta di ritorno di queste vecchie amicizie.
Ma quindi il boulder (e la sala boulder) è per te condivisione, oppure hai amato anche, come è stato per me, quelle giornate di boulder solitario quando non esisteva altro che te d il passaggio da realizzare? Come vedi questa nuova socialità nella scalata, forse la vera novità in questo ritorno al bouldering?
Il boulder è sicuramente un momento aggregante e i raduni e il gran numero di persone che frequentano le palestre lo dimostrano. Risulta essere inoltre un momento essenziale di ricerca del gesto. Questo ritorno credo che sia un po’ il bisogno di trovare nuovi stimoli da parte di alcuni. Poi la cosa si è diffusa e la socialità che si è sviluppata ne è la diretta conseguenza. Il boulder è più immediato, più divertente e, anche se necessita di doti fisiche ed elevate capacita motorie e di fantasia, dall’altra parte richiede meno capacità di saper soffrire e resistere rispetto alla scalata con la corda. Una specialità per i cultori del gesto da una parte, una specialità per atleti in vena di trovar lungo dall’altra!
La domanda di rito sulla tua esperienza nelle gare ti attende, ma non è la solita! Da atleta sei diventato tracciatore: semplice questione anagrafica o bisogno di creatività?
Diciamo che c’era bisogno di cambiare pur restando dentro un ambiente che mi piace. Tracciare è un po’ come dettare le regole di un gioco nell’attesa di vedere chi le sa rispettare al meglio. A me personalmente è servito molto soprattutto per prendere confidenza con la resina e capire realmente cosa può fare un atleta di alto livello.
Tracciare è sicuramente impegnativo e proporre nuove cose non è mai facile. Io non sono propriamente un boulderista e ogni volta che devo tracciare una gara di boulder almeno tre settimane prima mi abituo a quel tipo di scalata cercando di inventare qualcosa di nuovo sul mio muro. Conoscere il gesto è molto importante e alle volte la tracciatura di un problema, se hai le idee chiare, la puoi risolvere veramente in poco tempo. Altre volte l’idea che hai di un blocco risulta talmente difficile da fare che devi abbandonarla.
Come hai vissuto la tua esperienza di attrezzatore di nuove vie, spesso visionarie, al Cubo di Arnad?
Aprire nuove vie per me è sempre stata una necessità. È un po’ il bisogno di lasciare un’impronta duratura di sè. Il Cubo è un capitolo veramente importante della mia storia verticale… è uno dei pochi posti vicino a casa dove riesco ad allenarmi. Molta fatica e molti giorni di lavoro per creare queste vie. La roccia è avara e ho dovuto lavorarla per salire. Oggi forse avrei scavato meno ma alla fine come al solito mi sarei trovato a scalare in compagnia di pochi intimi. Un contributo quindi al popolo verticale, un lavoro del quale non mi pento assolutamente. Scavare era l’unica scelta possibile per poter allenarsi nelle immediate vicinanze e non dover fare almeno 200 km tutte le volte. Oggi anche il mio stile di chiodatura è cambiato. Con la scoperta di Gressoney ho imparato a chiodare con tutta calma e a guardare bene prima di scavare, quasi a dire che osservando bene c’è sempre una via d’uscita. In questa maniera il risultato è stato eccellente. Più di trenta vie e zero prese artificiali. Ma questo è un caso difficile da ripetere…
Ma non corriamo sino a Gressoney e andiamo con ordine! Cosa ha rappresentato per te il paragrafo Tetto di Sarre? La lotta per siglare un record, il primo 9a italiano, o qualcosa di più?
Sarre è stato per molti la possibilità di scalare durante le giornate piovose prima della nascita delle sale d’arrampicata. È stato un buon terreno d’allenamento. La storia di Ground zero non è la ricerca del primo 9a italiano. Non ero lì per stabilire un record ma semplicemente per chiudere i conti con qualcosa che avevo creato. Certamente, se Sarre era l’ingrediente principale, i fratelli Bindhammer sono stati i catalizzatori che hanno fatto esplodere in me la voglia di fare la prima salita. Con la fatica che avevo fatto per chiodare l’agghiacciante piastrone non mi sarei perdonato di essermi fatto sfuggire la prima libera, e così dopo un Rock Master andato male mi sono preso la rivincita nel terreno a me piu congeniale. Il grado 9a è poi venuto da solo e il tempo che i fratelli ci hanno passato sotto per venirne a capo, lo confermano!
Le tue parole però tradiscono una certa voglia di lasciare un segno in questa nostra piccola grande storia. Tanti fortissimi climber però si accontentano di ripetere le vie di riferimento aperte da altri, senza tentare progetti insoluti dall’esito incerto. Quando ti dedichi alle ripetizioni, lo fai per leggittimare le tue “prime libere” o effettivamente per non perdere il senso della realtà e rimanere coi piedi per terra? Ed è una cosa che ti stimola o senti di doverlo fare per forza?
La scalata è la mia grande ispirazione, la voglia di allenarsi è mossa dalla passione e il fatto di lasciare un segno è la diretta conseguenza di aver fatto un buon lavoro. Sono tanti i modi per lasciare qualcosa ma forse i risultati sono scalzati da altri risultati e presto dimenticati. L’apertura di una nuova via è un qualcosa che rimane e, anche se lo fai per te, rimarrà anche per gli altri. Ripetere le vie dure degli altri serve da parametro, ma io non ho gran tempo per viaggiare anche perché, sebbene con grandi sforzi abbia sempre rubato un pò di tempo al lavoro, la parte professionistica della scalata per mè è finita nel marzo del ‘94! Sembrerà strano ma io non ho mai scalato dieci giorni di seguito e mi dico sempre che vorrei provare a prendermi due mesi e vivere di nuovo un piccolo periodo da professionista per vedere dove finiscono i miei limiti! Quando ripeto le vie che apro cerco di essere in linea con quelli che erano i gradi nel momento in cui ho iniziato. Il mio riferimento iniziale è il finalese e ho sempre cercato di attenermi a una scala di gradazione che non regala niente. Tornando alle vie che apro talvolta mi sono trovato a combattere con tiri che non mi stimolavano affatto, ma quasi per un innato senso del dovere ho cercato in ogni caso di salirle. Da questo fatto negli ultimi tempi si è sviluppata in me la necessità di aprire solo vie belle e più naturali possibile.
Alberto, tu sei uno dei pochi climber a sapere per esperienza diretta cosa sia un 9a. In effetti molti ne parlano, ma nessuno ha ben presente cosa voglia dire salire su questo grado. Secondo te quali margini di miglioramento ci sono per il futuro, in fatto di difficoltà? Vedi particolari tendenze all’orizzonte?
La difficoltà sul lavorato può ancora incrementare, ma bisogna essere umili e obiettivi nel dare un grado aspettando le conferme senza paura di essere smentiti. Sicuramente chi può spingere i limiti sono gli atleti che si allenano per fare le gare e sviluppano al massimo le qualita di forza resistenza. Fattore determinante rimane comunque la struttura rocciosa. Un 9a+ di dieci metri penso sia qualcosa che al momento sia impossibile. La tendenza sull’alta difficoltà rimane per ora sulle vie oltre i 25 metri.
Che atteggiamento hai, o hai avuto, verso chi ha dichiarato prestazioni fuori dalla norma, come Rouhling o Fernandez?
Rimango sempre un po’ scettico riguardo a questi numeri. Bisogna anche dire che entrambi ci hanno passato molto tempo sotto e si sono dedicati probabilmente solo a quella via, quindi è anche possibile. E poi bisognerebbe andare a provarla per parlare. I miei dubbi piu grossi arrivano quando una via di 9a è ripetuta molto velocemente da 10-15 persone!
Dalla supercontinuità si è passati alla resistenza, quindi è ritornato in auge il boulder e qualcuno ha anche smesso di scavare. Quale era della scalata ti ha dato di più?
Tutto risulta essere ciclico e il boulder dopo anni di letargo è tornato a farsi sentire. In vent’anni di scalata credo di aver vissuto tutte le diverse specializzazioni e da tutte ho cercato di apprendere qualcosa. Forse negli ultimi anni il boulder è stato per me il miglior mezzo per progredire. Riguardo allo scavato non mi sento di criminalizzarlo anche perché io ne sono stato un artefice. Oggi però credo di poter dire che si potrebbe migliorare nel senso che prima di scavare bisognerebbe cercar bene ogni possibilità naturale.
Oggi si sente dire che, a suon di tentativi, qualunque climber da 6c possa arrivare a fare almeno un 8a, se per lui questo è importante. In effetti abbiamo tantissimi climber che hanno raggiunto questa magica cifra, ma pochissimi che sono in grado di farlo in uno o due tentativi. Pensi che sia un falso problema, una degenerazione, o un reale progresso?
È una questione di approccio. Un diverso punto di vista nell’affrontare le cose. Io quando facevo il 6c cercavo di fare il 7a in 2 giri. Provare degli 8a quando il tuo livello è basso, credo sia un po’ come fare della ginnastica. Una forzatura che ti lascia crescere solo su quel tiro e su quel tipo di prese. Io amo l’arrampicatore estroso, quello che fa l’8a a vista in strapiombo e il giorno dopo lo fa in placca. Amo la capacita di adattarsi a ogni stile di scalata.
Cosa diresti ai climber di oggi, che soffrono a trovare le motivazioni giuste per migliorare? Focalizzarsi sul grado e sui risultati, allenarsi, diversificare, mirare alle competizioni… è un bel rebus!
Le nostre motivazioni sono guidate da diversi fattori e alle volte la vita frenetica che conduciamo tende a farle svanire. La motivazione è un qualcosa che ti cresce dentro. Nei primi anni di scalata mi ricordo che la mattina alle 5 ero già in piedi e non vedevo l’ora di mettere le mani sulla roccia. Ma questo è un qualcosa di inspiegabile che hanno in pochi. Alle volte penso sia un bisogno di rivincita della propria persona sulla società, un modo per uscire da un vivere difficile e piatto. Vivere senza passioni, senza qualcosa su cui canalizzare le proprie energie, a parte il lavoro, dev’essere veramente difficile. Non ho una medicina per trovare le motivazioni ma ciò che consiglierei a tutti è quello di provare l’esperienza della gara, provare a ragionare da atleti e mettersi alla prova. Già farlo è una vittoria perché in quel momento mettendoti in gioco capisci chi sei e dove sei e ti rendi più onesto nei confronti degli altri.
Come tutti i climber di lunga data ti sei confrontato con gli infortuni. Cosa ci puoi dire di questa esperienza? Hai imparato qualcosa da questi stop, hai sofferto di motivazione, o sono stati una spinta per ricominciare con più vigore?
Mi sono rotto un tendine, ho avuto qualche problema con una puleggia e poi mi sono rotto tre dita… direi perfetto! Tutti questi avvenimenti mi hanno dato la possibilità di prendermi dei sani riposi ma la motivazione non è mai scesa. Dopo ognuno di questi periodi ho raggiunto degli alti picchi di forma. Purtroppo noi climber vorremmo essere in forma tutto l’anno… ma questo non è possibile nell’arrampicata come negli altri sport.
Hai mai rimpianto di non aver vissuto altri momenti della storia della scalata? Le grandi conquiste, il Nuovo Mattino, la nascita dell’arrampicata sportiva. Quale pensi sia stata la conquista della tua generazione, nel campo della scalata?
Credo di potermi inserire in un tempo che definirei “di mezzo”, anello d’unione delle due generazioni di arrampicatori. Sono contento di aver vissuto la mia epoca ed essere comunque testimone di quel misticismo che ha caratterizzato quella precedente. Mi sono confrontato con i grandi nomi di allora: Raboutou, Moffatt, Atkinson, Nadin, Tribout. L’arrampicata a quel tempo era fatta di miti. Vi era un grande bisogno di figure ispiratorie. Io stesso ho iniziato ad arrampicare grazie al magnetismo di un personaggio in particolare. Ora i miei miti sono scomparsi e l’unico vero riferimento è la mia passione e la mia voglia di fare ancora. Credo che comunque le nuove generazioni abbiano dei modelli di atleti da seguire. Ciò che oggi manca però è la scoperta del nuovo, non più un gioco da bambini ma uno sport per atleti.
Alberto, da arrampicatore sportivo, ma anche da bravo sciatore, come vedi le montagne? Un luogo sacro e un po’ mistico, o un terreno di gioco dove un giorno si potrà trasportare quanto fai sulle piccole pareti di bassa valle?
Le grandi pareti che scruti quando sei sotto o le cime innevate e i grandi spazi delle montagne quando sono a fare una gara di sci, mi fanno capire quanto siamo piccoli di fronte alla grande forza della natura. Tanti di noi hanno bisogno di questa sua forza, per sfidarla e sentirsi appagati nell’aver fatto qualcosa che pochi possono fare. Non credo che le grandi montagne siano per me. È un gioco molto pericoloso alle volte dettato da coincidenze che se sfavorevoli sfociano in tragedia… e io voglio riuscire a vedere delle belle rughe marcate sul mio viso. Forse le grandi pareti e le vie lunghe e difficili saranno il mio prossimo obiettivo. Ma è sempre difficile staccarsi della falesia. Per me è la ricerca dei limiti fisici, l’estremizzazione del gesto, la capacità di fare un tentativo su una via al tuo limite dopo essere caduto all’ultima presa. È la mia droga, nella vita e nello sport.
Cosa ti sembra che ti abbiano dato, a livello interiore, tutti questi anni dedicati all’arrampicata?
Tutto ciò che sono oggi è il risultato di questi vent’anni di scalata. Nel bene e nel male la scalata mi ha fatto maturare ma soprattutto mi ha insegnato che in ogni cosa che fai i risultati vengono solo dopo un duro lavoro. Ma per mantenere quei risultati l’impegno che devi mettere è ancora più grande. Io personalmente in gara forse per vari fattori, quando avrei potuto non sono mai riuscito a dare il massimo ma la mia personale vittoria di oggi è quella di essere comunque ancora lì ad alti livelli in falesia! Dall’altra parte bisogna stare attenti a gestire le proprie passioni con attenzione curando anche altre cose per non rischiare di rimanere soli.
Pensando agli ultimi due anni, che effetto ti fa essere finalmente sulle copertine delle riviste? I media si sono accorti solo ora di te, dopo il tuo ultimo 9a a Gressoney, oppure non hai mai badato molto se altri personaggi hanno avuto più visibilità? Proprio ieri un grande alpinista ha detto che essere forti conta solo al 30%, il resto è capacità di comunicare, raccontarsi, sapersi in qualche modo vendere.
Non credo che i media si siano accorti di me solo ora anzi, devo dire che le riviste del settore mi hanno sempre ben presentato. A livello mediatico avere una copertina rappresenta quasi il massimo per il nostro piccolo mondo e forse a ben vedere me la sarei meritata di più qualche anno fà, quando ero più forte. A quel tempo però non ero in grado di gestire e proporre la mia immagine, ma questo è normale. Quando sei troppo dentro il meccanismo degli allenamenti e delle gare avresti bisogno di qualcuno che si occupi della tua promozione e alle volte tu stesso non capisci quanto sia importante farlo e non solo per te ma anche per la crescita del nostro sport. Bisognerebbe fare in modo che se ne parli anche al di fuori e per fare questo alle volte hai bisogno dei giusti “ganci” e allora qui esce il concetto di quel grande alpinista che afferma che alle volte essere forte rappresenta solo il 30% della torta. In ogni caso i soldi che girano e gli atleti che ne traggono qualcosa a livello economico sono pochi e poco propensi a scrivere e a farsi fotografare per far parlare di sé. L’esempio l’ho avuto con la gestione del mio sito personale dedicando uno spazio alle interviste ai personaggi dell’arrampicata. Progetto quasi abbandonato o raramente rincorso ormai, una tal fatica per avere due righe da parte di alcuni! Siamo dentro una sorta di piccolo commercio e se non ti sai vendere per quanto bravo tu possa essere, non stai a galla.

Condividi: