
26 Ott Climbing Hero: Jerry Moffatt
La maggior parte della gente, per i propri 21 anni, pensa ad organizzare una mega festa o a ricevere quanti più regali possibile, mentre io me ne stavo lì, in quella polverosa falesia del sud della Francia, a brindare con acqua in compagnia di un solo amico. Ma non c’era altro posto al mondo dove avrei preferito essere (…) Ecco quindi come mi accingevo a trascorrere il mio ventunesimo compleanno: sdraiato sul ciglio dell’autostrada a tremare di freddo nella speranza di non essere schiacciato da qualche macchina. Ma ero davvero contento: non avevo mai scalato così bene e se dovessi ora guardare indietro la mia carriera e scegliere un singolo giorno da incorniciare credo che sarebbe proprio quello. (J. Moffatt)
Come si può mai parlare di Jerry Moffatt e descriverne la sua importanza nel mondo dell’arrampicata in poche parole? Come si può riassumere ciò che tuttora rappresenta alla luce dei cambiamenti epocali che stanno investendo il nostro mondo? Di certo poche righe non bastano ma speriamo che possano almeno servire ad invogliare a leggere tutto d’un fiato “Topo di Falesia”.
“…quando mi chiedevano cosa avrei fatto dopo la scuola, avevo già la risposta: sarò un topo di falesia. Fin dal primo momento, da quando rimasi stregato dall’arrampicata per la primissima volta, sapevo che tutto quello che avrei voluto fare nella mia vita era girare per falesie e scalare tutto il giorno. Anche la definizione stessa, topo di falesia, colui che vive nella sporcizia, squattrinato, e corre incessantemente lungo pareti e camini, sembrava perfetta.”
A mio parere, questo è uno dei libri più significativi nella letteratura di arrampicata e ogni nuovo praticante, specialmente se ragazzino, dovrebbe leggerlo, per farsi un’idea di cosa è sempre stata l’arrampicata e avere un’idea di come viverla nel contesto attuale.
Certo, per celebrare la grandezza di Moffatt basterebbe fare l’elenco delle sue realizzazioni: la mitica Strawberries di Fawcett, Little Plum, le rapide ripetizioni di Psycho e Genesis negli Stati Uniti, il Master’s Wall, Papy On Sight in Verdon, i durissimi e ormai storici testpiece di Buoux, Revelations, Evolution ecc ecc, per poi ricordare le vittorie in Coppa del Mondo e le salite di blocchi quali The Dominator in Yosemite o The Ace nel Peak…giusto per menzionare alcuni risultati rilevanti. Molteplici sono le realizzazioni che l’hanno portato a divenire per un certo periodo il più forte al mondo, ma che guadagnano un significato ben maggiore se vengo considerati alla luce di ciò che era la vita di climber e la personalità stessa di Moffatt.
Il fascino di Jerry inizia dal suo modo di approcciarsi in modo radicale all’arrampicata, sfruttando il contesto sociale dell’Inghilterra degli anni 80: qui buona parte della comunità di arrampicatori sopravviveva con l’assegno di disoccupazione per arrampicare tutto il giorno, vivendo in grotte o baracche quasi da barboni, con la compagnia di sporcizia, degrado e topi… Come nel capanno di Tremadog:
“(…) di notte, quando tutte le luci attorno erano spente, le mura prendevano vita per risuonare dello squittio di topi e ratti. Una volta uno di questi mi corse sulla faccia mentre stavo dormendo, e senti le sue piccole zampe e la coda strisciare sulla mia pelle, proprio sopra la bocca il naso: fu qualcosa di raccapricciante.”
O la legnaia di Stoney:
“(…) la legnaia di Stoney non mi aveva particolarmente impressionato, non era neanche paragonabile al capanno di Tremadog. Qualche ora più tardi cominciò anche a piovere, dritto attraverso il tetto di quella che per i due anni su seguenti sarebbe stata la mia casa.”
O infine la catapecchia di Hunter Road
“(…) di tutti i posti in cui ho vissuto, di tutte le grotte, le cantine, le baracche in amianto e le tende puzzolenti in cui ha dormito, non c’è niente che possa avvicinarsi neanche lontanamente ai livelli di sudiciume, degrado e abbandono del numero 124 di Hunter House Road (…) Era una casa di matti. Nessuno lavorava, tutti firmavano per l’assegno di disoccupazione, il comune pagava l’affitto. La casa era letteralmente un porcile”
Un’esistenza che giorno dopo giorno procede senza alcuna sicurezza di sostentamento ma con l’unica certezza dell’arrampicata.
“ (…) vivevo con un budget di una sterlina al giorno, mangiando roba scaduta o da due soldi, e dormendo in baracche o caverne. Pensavo che il denaro sarebbe stato un intralcio inutile che rischiava di rendere le cose più complicate e di togliermi dai miei obiettivi. I soldi non avrebbero aggiunto niente alla mia vita (…) Nonostante la povertà, quello fu un periodo davvero speciale, perfetto per quella fase della mia vita.”
Nonostante questo stile di vita, Moffatt non fu lo stereotipo del climber freak e disadattato che vive nelle grotte e rifugge da qualunque contatto con il mondo e con le sue convenzioni. Alla base dell’arrampicata di Jerry sta innanzitutto una voglia di mettersi in gioco, in cui la competizione e l’emergere sugli altri giocheranno un ruolo fondamentale nel dargli motivazione, nel fargli affrontare il mondo e i suoi cambiamenti ed infine anche nel portarlo ad abbandonare l’arrampicata.
“ (…) l’intervistatore mi chiede cos’è che mi piace di questo sport. Io guardo dritto nella telecamera e dico:” bruciare gli altri scalatori, lasciarli indietro.” Non ricordo di essere mai stato così competitivo, di aver mai avuto quella atteggiamento di sfida, ma non c’è niente da fare è tutto lì su quel filmato. Mi piace bruciare gli altri scalatori. Ero andato in America e, davanti a tutti, avevo salito una delle vie più dure del paese in scarpe da ginnastica. Fantastico.”
Nel voler diventare il migliore Jerry non si risparmia in nulla:
“(…) quando fai qualcosa, non importa se sei capace oppure no, ciò che conta davvero è che tu dia tutto quel che hai, che ti impegni al massimo (… ) Devi dare il meglio di te stesso, sempre e comunque.”
“(…) mi sentivo invincibile, quasi immortale. Non dimenticherò mai quel brivido: sapevo cosa volevo, avevo deciso di rischiare tutto per averlo.”
La competizione, tuttavia, si esplicita in tutto il suo senso positivo, come un confronto con gli altri per comprendere i propri limiti, migliorare sempre di più e in cui il risultato finale costituisce solo un parametro per valutare se stessi, capire le proprie motivazioni e mettersi continuamente in gioco.
Innumerevoli sono i top climber mondiali con i quali Jerry ha profondi contatti e che, tra rivalità ma anche indissolubile amicizia, sono fonte di ispirazione e motivazione.
Dal fraterno amico Ben Moon che Jerry conosce fin dagli esordi:
“ (…) Scorgemmo un ragazzino dirigersi verso Axel Attack, un classico E5 della zona. Aveva il tipico look punk: carnagione chiara, abiti neri aderenti, braccialetti colorati, e lunghi e sporchi capelli corvini (…) Quel ragazzino aveva 16 anni, e si chiamava Ben Moon (…) Già da quella volta era evidente che il ragazzo era dotato della qualità più importante di tutti: la determinazione di dare sempre il massimo. Aveva lanciato, tirato, stretto, bloccato sempre sul punto di cadere, fino allo stremo delle forze”
e che diviene inevitabilmente il suo primo rivale
“ (…) in tutti questi anni Ben e io siamo sempre stati grandi amici, ci siamo allenati insieme e insieme abbiamo girato il mondo di falesia in falesia. Ma eravamo pur sempre rivali. Io volevo salire via più dure di lui, e lui voleva salire via più dure di me. Desideravamo entrambi essere migliori. Era un modo per motivarsi, e per lavorare con ancora più grinta.”
passando poi a John Bachar e Ron Kauk in Yosemite, a Wolfgang Gullich e Kurt Albert (con i quali vive per molto tempo), ai fortissimi fratelli Le Menestrel e Jibè Tribout, amici/rivali che costituiscono sempre un parametro di confronto costruttivo:
“ (…) c’era un evidente sentimento di competizione tra tutti noi, ma si trattava di qualcosa di positivo, che ci spingeva a dare il massimo a ogni tentativo (…) Come spesso accade, una competizione amichevole può insegnare tanto, e in quell’occasione Io imparai molte cose interessanti studiando i diversi stili e punti di forza dei miei tre amici francesi (…) Come in tutte le discipline sportive, anche nell’ arrampicata si incontra un senso di rivalità tra gli atleti, cosa che io stesso ho provato in prima persona, anche se credo e spero di averla sempre presa nel modo giusto. La competizione è utile quando ci spinge a tirare fuori il meglio di noi, non quando fa sperare che l’altro scali male; fortunatamente, è raro trovare questa forma di agonismo così aggressivo nel mondo dell’arrampicata, o almeno lo era quando nel 1984 scalavo con i miei tre amici francesi.”
Moffatt non ha paura di uscire dalla comfort-zone per trovare sfide sempre nuove in giro per il mondo. Infatti, per anni non fa altro che viaggiare ovunque e il più possibile senza alcun timore nel confrontarsi con i diversi testpieces sparsi per il globo, che in breve si porta sempre a casa.
“ (…) girare il mondo mi aveva dato anche un’opportunità eccezionale, quella di potermi misurare con i più grandi scalatori di altri paesi; a quel tempo, per un motivo o per un altro, io ero avanti rispetto a loro, e ci sarebbe voluto ancora qualche anno prima che il resto del mondo mi raggiungesse. Ero giovane ed estremamente ambizioso, avevo lavorato sodo e in certi casi ero stato fortunato, e le cose sono andate come volevo: erano stati anni davvero indimenticabili.”
In tutto questo Moffatt deve affrontare anche lunghi periodi difficili, in cui tristi vicende o seri infortuni lo obbligano a doversi fermare, rischiando di mettere fine alla sua carriera. Eppure, nel tutt’uno di vita/arrampicata, si rialza sempre con caparbietà ed ostinazione, ritornando in tempi rapidi ad essere un climber di riferimento mondiale.
Inevitabilmente, un top climber come Jerry non può non trovarsi a doversi confrontare con la nascita delle prime celebri competizioni, con tutte le limitazioni che le gare possono comportare per un individuo creativo e libero come lui.
“ (…) vedevo soltanto burocrazia, gente che ti diceva dove e quando scalare, nastri bianchi e rossi ovunque. Sembrava tutto così lontano da ciò che cercavo nell’ arrampicata: stare con gli amici, divertirsi, lavorare a vie nuove o al proprio limite; insomma, essere liberi. In quel posto, invece, si aveva l’impressione che fosse tutto gestito da businessman. E alla fine della fiera, qualcuno aveva vinto, e qualcuno aveva perso: proprio quello che uno scalatore cerca sempre di evitare. Decisi che non ne volevo sapere niente, né di gare né di premi.”
Per Moffatt i parametri per valutare un climber sono ben diversi: “(…) arrivare primi era la cosa più importante ai loro occhi, mentre per me il vero banco di prova era liberare una via che nessuno fosse ancora riuscito a risolvere.”
Tuttavia, sa bene che “ (…) alla fine fu veramente ovvio che non avrei più potuto continuare a evitarle, avrei dovuto lasciarmi risucchiare in quel universo.”, ed è qui che sta il suo così essere attuale anche oggi.
Infatti, Jerry sa che non può ignorare quel mondo
“(…) col passare degli anni le competizioni sarebbero diventate qualcosa che molti scalatori decidono di evitare come la peste. Ma allora, negli anni 80, tutti sembravano essere perdutamente innamorati: boulderisti, scalatori a vista, scalatori sul lavorato (…) non potevo proprio far finta di niente, quello sì che sarebbe stato un vero fallimento, un’enorme lacuna nel mio curriculum di arrampicatore.”
Ma è allo stesso tempo sufficientemente lucido per portare nelle competizioni quello spirito dell’arrampicata nato alla base delle pareti, nelle cantine e nelle baracche.
Il primo impatto con le gare non è positivo e Jerry non riesce ad esprimere il suo potenziale, condizione inaccettabile per uno competitivo come lui:
“(…) avevo salito a vista via più dure di tutti, avevo liberato i problemi più difficili, e avevo portato a casa le vie in red point più estreme. Ero il migliore, ma la frustrazione di non riuscire a dimostrarlo in gara non mi lasciava ormai più vivere in pace. Volevo disperatamente una vittoria, ma non potevo sopportare l’idea di un’altra sconfitta.”
Inevitabile il porsi delle domande:
“Mi mancava l’energia per tener testa tutta la faccenda. Volevo indietro la mia vita. Volevo rivedere i miei amici. Volevo scalare per me stesso. Volevo riprendere ad aprire vie. Più di tutto, volevo ricominciare a divertirmi.”
Anche da questa crisi, Jerry si riprende alla grande, si allena moltissimo a livello mentale e i suoi sforzi culminano nell’eccezionale vittoria in Coppa del Mondo a Leeds nel 1989, che inaugura un periodo che lo vede protagonista nelle più importante gare internazionali.
Come tutto, però, prima o poi anche le gare non hanno più stimoli da offrirgli e Moffatt torna alla roccia, dove ritrova nel boulder tutta la magia. Jerry e Ben sono tra i primi al mondo a riconoscere la bellezza e la dignità di questa disciplina in relazione all’essenza stessa dell’arrampicata:
“ (…) più tardi ancora è diventata una disciplina vera e propria, grazie alla quale potevo concentrarmi esclusivamente sul gesto arrampicatorio in sé per sé, senza l’intralcio della corda o la necessità di un assicuratore.”
Anche nel boulder, Jerry è al top mondiale, non solo nelle aree inglesi ma anche a Fontainebleau, nella Yosemite, in India… e scopre in questa disciplina il concretizzarsi ultimo della creatività:
“(..) avevo creato qualcosa di magico partendo da una visione, una sensazione. Se non l’avessi immaginata e non avessi cominciato a lavorarci, quella linea forse non sarebbe mai esistita. Il processo creativo che porta la luce problemi come quello è qualcosa di strabiliante.”
Ma ad un certo punto, Jerry si interroga sul significato che l’arrampicata ha nella sua vita, e gradualmente l’abbandona serenamente per dedicarsi ad altri progetti che diventano più prioritari:
“(…) l’arrampicata è spesso vista come una scelta di vita, qualcosa a cui la gente dedica alla propria esistenza. Si comincia da ragazzini con l’ossessione dell’allenamento, poi da adulti si cerca di organizzare lavoro e famiglia attorno agli impegni in falesia, per poi finire, col passare degli anni, con lo scalare fintanto che il corpo regge. Per molti si tratta della cosa più importante, della base su cui costruire la propria vita. Questa gente non perderà mai la propria determinazione, neanche quando capacità e forza cominceranno a sfumare. Quando smisi di scalare per dedicarmi alla famiglia e alla ristrutturazione del pub, molta gente mi chiedeva quando sarai tornato in falesia, e facevo sempre fatica a spiegare loro ciò che realmente provavo. L’arrampicata ha un significato è diverso per ognuno di noi: per qualcuno è solo un modo di prendere un po’ d’aria fresca, per altri è un’avventura, per altri ancora un’attività sociale, un modo per stare con gli amici. Per me più di tutto il resto, scalare voleva dire dare il 100% di me stesso su ogni via, a ogni movimento, durante ogni seduta al trave. Girare il mondo e salire le vie più dure, ma anche allenarsi senza sosta, essere sempre al picco della forma. Ecco cos’era l’arrampicata per me (…)”
“L’arrampicata ha un significato diverso per ognuno di noi”.
Questa affermazione è agli antipodi di ciò che è l’arrampicata oggi: un pacchetto predefinito e standardizzato in cui la creatività e l’individualità sono praticamente soppresse.
Cosa possiamo quindi comprendere dalla vita di Jerry? Ha liberato linee durissime su roccia, ha dominato le gare, è stato attivissimo nel promuovere la sua immagine e ad avere un impatto mediatico, così come nell’andare incontro alle esigenze degli sponsor. È stato un “professionista” della scalata come lo intenderemmo oggi nella massificazione e commercializzazione di questa disciplina. Eppure, in tutto questo, ha saputo essere un simbolo di ciò che l’arrampicata è davvero: visione, arte, individualità, carisma. Non un prodotto umano da dare in pasto alle masse per poi essere dimenticato quando il livello non sarà più al top.
Per questo la sua biografia è tanto bella da leggere, perché dimostra che i valori e l’essenza dell’arrampicata possono essere mantenuti in vita senza troppi contrasti anche nel mondo attuale, se solo si volesse andare oltre il consumismo e se solo non fossimo dei pecoroni che seguono unicamente i percorsi tracciati.
Eppure, alla luce di tutto questo, resta ancora un’ultima sua affermazione su cui riflettere:
“(…) nell’arrampicata, dove non ci sono Olimpiadi, medaglie e trofei per le vie più dure, fare una prima ascensione assoluta è fondamentale. Un nuovo problema è come un monumento, una testimonianza di abilità e determinazione scolpite nella roccia per sempre (…) Quei problemi rimarranno lì per sempre, e grazie ad essi le generazioni future potranno capire. E questo è qualcosa che nessuno potrà mai portarmi via, mai.”
Che dire? L’arrampicata alle Olimpiadi ora è una realtà e tutto sta già cambiando proprio in vista del loro arrivo… Cosa capiterà al mondo dell’arrampicata? Come cambierà lo scenario nei prossimi anni? Che effetto avranno nel modificare ancora di più l’essenza di questa meravigliosa disciplina? Chissà…
Forse, proprio per questo, è ancora più importante leggere libri come Topo di Falesia, per ricordare nel presente tutto ciò che di magico e speciale hanno da raccontarci i protagonisti del passato.
Alberto “Albertaccia” Milani
Tutte le citazioni riportate sono tratte dal libro “Topo di Falesia” – J. Moffatt e Niall Grimes – Coll. I Rampicanti – Edizioni Versante Sud.