28 Mag 1993, Sentiero Roma in inverno
Nell’inverno 1993 Giuseppe Miotti e Sergio Salini hanno realizzato la traversata del Sentiero Roma in Valtellina in versione scialpinistica e alpinistica, includendo anche le ascensioni del Pizzo Badile e del Monte Disgrazia.
Il percorso più classico del Sentiero Roma, già piuttosto impegnativo in estate, parte da Bagni Masino e fa tappa presso i rifugi Omio, Gianetti, Allievi e Ponti.
Ecco le note tecniche di Giuseppe Miotti relative all’itinerario invernale.
Chi conosce l’itinerario estivo può facilmente rendersi conto che d’inverno la sua percorrenza non è affatto semplice. Di sicuro l’arma vincente è la scelta del periodo più adatto, cosa che quest’anno è stata fin troppo facile dato il persistente bel tempo. Avventurarsi sul percorso da noi fatto dopo una recente nevicata o troppo presto e quindi con giornate corte significa quasi certamente impiegare almeno due giorni in più per la sola traversata, senza contare un notevole aumento delle difficoltà tecniche e oggettive.
I passaggi più impegnativi sono dati dalle discese dei passi Barbacan, Camerozzo e Qualido; in particolare il secondo richiede ottime condizioni di innevamento e buon assestamento dei pendii che raggiungono pendenze attorno ai 50° e che offrono scarsissime possibilità di assicurazione. Gli altri due valichi sono più brevi ma forse si riscontrano alcuni tratti con pendenze maggiori. La Bocchetta Roma presenta le maggiori difficoltà nella salita; data l’esposizione a nord, può spesso rendersi assai problematica e forse sconveniente, in funzione del tipo di neve che si trova e del suo stato di assestamento. L’unica alternativa a questo passaggio si trova circa trecento metri di dislivello più a monte, al Passo Cecilia, senz’altro sempre praticabile con gli sci. La tappa più lunga è quella fra i rifugi Gianetti e Allievi, quella col maggiore dislivello, 1600 m, quella da Bagni Masino alla Gianetti passando per il rifugio Omio. La dotazione tecnica era costituita da una corda da 8 mm x 5 m, alcuni chiodi da roccia e da ghiaccio, tre “cordadi” (dadi dal cordino particolarmente lungo e scorrevole per cui il cordino può anche essere utilizzato per tutte le sue normali funzioni), quattro stopper con cavetto, ramponi, piccozza. Dato che contavamo di dormire nei bivacchi invernali dei rifugi abbiamo portato un sacco a pelo leggero tipo Snappy della Lumaca. Anche l’abbigliamento è stato scelto con parsimonia: due calzamaglie in pile o capilene, maglietta e maglioncino di capilene, pile e completo di Gore Tex; tutto ciò poiché sapevano già che saremmo stati in azione da mattina a sera e quindi non era necessario avere surplus di abiti caldi. Viveri e gas per 5 giorni più 1 kg di reintegratori salini. Sci leggeri Fischer Tcur Lite e Trabucchi Piuma, attacchino superleggero dei sistema Dynafit, estremamente robusto. Scarponi Dynafit con la scarpetta resa più precisa rispetto allo scafo e meglio coibentata con un apposito sistema.
Di seguito il racconto “Cinque giorni in inverno”, scritto da Giuseppe Miotti dopo l’esperienza del 1993 e pubblicato sul n. 105 di Alp.
Ancorato a una precaria lama incastrata chissà come, senza poter appoggiare lo zaino a cui sono appesi gli sci, guardo le monolitiche placche che mi sovrastano e il sottile diedro che le incide aumentandone la repulsività. Con sorpresa mi rendo conto che non provo alcuna attrazione per quelle rocce che in altri tempi avrebbero sollecitato in me ben altri sentimenti. Per associazione arrivo persino a giudicare stupidi quelli che ancora si arrabattano sugli “ultimi problemi” prendendosi sul serio; non li capisco più, eppure per molto tempo anch’io mi sono preso sul serio. Adesso quelle placche mi fanno paura: perché non mi dicono più nulla. E tutti quegli “ultimi problemi” spesso affastellati uno sull’altro in pochi metri di parete, in posti che sono sempre quelli, dove la roccia è sempre (più) ottima, le fessure più nette, l’arrampicata più esaltante, la difficoltà (più) “difficile”, mi suggeriscono che la fantasia è il vero “ultimo problema”. Del resto questa faccenda del Sentiero Roma d’inverno non è venuta per caso; perché pensando di muovermi in questo ennesimo splendido inverno di alta pressione, non riuscivo proprio a immaginare nulla che mi interessasse e mi desse un po’ di incertezza. Venuta meno per il dodicesimo anno consecutivo la soluzione di un problema a Nord per la mancanza di condizioni adatte, mi era sembrato che la pur facile traversata dei monti del Masino per la loro celebre alta via, lasciasse più spazio al dubbio che tante ascensioni ben più dure. E adesso eccomi qui con il super motivato Sergio, cinquantenne d’assalto, sempre allenatissimo, specie con gli sci. Assicurandolo sui pendii precari che scendono da Passo Camerozzo penso che non avrei potuto trovare partner migliore perché, oltre ad essere un vero e proprio “cavallo” è anche un elemento positivo espresso alla massima potenza. La tappa di oggi sarà la più dura, lo sappiamo entrambi, siamo partiti dalla Gianetti verso le sei, abbiamo già penato non poco a salire il Camerozzo, quasi schiacciati dal peso del… “bambino” che abbiamo in spalla. Gli ultimi metri li abbiamo fatti con l’aggiunta degli sci, sprofondando nella neve e cercando i punti che maggiormente ci potevano sostenere. Il fiato per parlare è stato quasi tutto speso due giorni prima quando, ancora freschi, si saliva al rifugio Omio. Sul Passo del Barbacan abbiamo avuto modo di capire cosa volesse dire arrancare su quei ripidissimi pendii con il “bambino”. La discesa dal Camerozzo ci porterà via oltre di‑le ore; tiro per tiro su pendii ripidi e protezioni quasi inesistenti, alla ricerca di qualche pezzo di corda fissa affiorante per poterci agganciare un moschettone. Oggi come l’altro ieri sul Barbacan e come fra altre tre ore sul Qualido, si scende sperando di non partire via, assicurati ma quasi mai sicuri. Il tempo passa e ogni minuto che trascorre è un minuto in meno a disposizione; l’idea di un bivacco all’aperto non ci spaventa ma, neppure ci esalta. La parola d’ordine è: dare il massimo per arrivare al rifugio Allievi‑Bonacossa o nei suoi pressi ancora con la luce.
In Valle del Ferro, dopo un’occhiata all’orologio decidiamo di salire di alcune centinaia di metri per poi scendere in diagonale verso la base del Passo Qualido; del resto questa strategia è stata usata positivamente anche per traversare la Val Porcellizzo. Non ci si ferma, neppure sotto il passo, si ricarica il “bambino” con gli sci e molto penosamente si guadagna metro su metro nella neve già un poco molle. Al passo non ci si ferma, fuori la corda e giù in Val Qualido; su e giù per le cenge ora coperte da un pendio nevoso; qualche dubbio sulla scelta del percorso; una odiosa salita a un intaglio e poi un ripidissimo canale. In valle non ci si ferma, il tempo trascorre: mettere e togliere gli sci, fare e disfare la corda, mettere e togliere i ramponi; se non fosse che questa traversata mi interessa sarei già scoppiato di testa al Barbacan. Ormai invece accettiamo tutte queste manovre con la pazienza del mulo mentre il “bambino” diviene quasi essere vivente. Un poco di acqua di fusione scorre sulle placche scoperte della valle; facciamo subito rifornimento riempiendo tutte le borracce in modo da poter risparmiare gas.
Il Passo dell’Averta ci apre le porta della Val di Zocca, ma non è finita; da un po’ di tempo mi preoccupa il tratto di percorso che aggirato il piede dello spigolo sudest del Torrione di Zocca, risale al rifugio. E siccome Giobbe ci insegna che non dobbiamo attenderci alcun premio, questo tratto finale ci fa sputare gli ultimi rimasugli di anima. Dopo circa tredici ore di marcia praticamente senza soste, possiamo togliere il “bambino” e cercare di ristorarci.
Notte fredda e umida all’Allievi, le spalle e le braccia ci danno molto fastidio e impieghiamo non poco a prendere sonno; un simile disturbo lo avevamo avuto anche la prima notte, ma credevamo che la salita di “relax” al Badile compiuta il secondo giorno, ci avesse rimesso a posto. Bella salita quella al Badile, senza “bambino” sulle spalle, leggeri e sotto un sole splendido. La prima metà che la siamo goduta salendo la cresta Sud, evitando i canali iniziali e un lungo traverso che non mi piaceva. Fare passi di IV con i Dynafit è stata un’esperienza precaria ma interessante: l’aderenza non è da gomma cocida ma, ci si salva. Dove la via normale si riavvicina alla cresta l’abbiamo ripresa e per il classico canalone, tutto di neve, abbiamo raggiunto la cima. Sebbene ci avessero detto che la discesa richiedeva parecchie doppie, la mia conoscenza della “vera via normale”, ci permette di divallare in sicurezza, ma senza ricorrere a questo lungo espediente. Dopo una decina di ore siamo alla Gianetti, ancora in tempo per godere l’ultimo sole e cercare di fare asciugare scarpe e corda e quant’altro di bagnato.
Quarto giorno. Partenza presto, ma non come ieri, scartata l’idea di salire anche la Cima di Castello a causa degli impegni che entrambi abbiamo giovedì, ci dirigiamo alla volta della Valle di Predarossa. Gli sci non servono, la neve è dura e un po’ a malincuore ci adattiamo ad avere il “bambino” a pieno carico; questo vuol dire 20‑22 chili.
Al Passo del Torrone sette o otto stambecchi saltellanti, levitano leggeri sulle vertiginose creste della costiera che piomba in Val Torrone facendoci sentire se possibile ancor più goffi, pesanti e inadatti. Sempre a piedi, cercando di mantenere un ritmo decente ma non sposante scendiamo e poi risaliamo fino poco oltre il bivacco Manzi. Poco sopra, come per magia accediamo ad uno dei più suggestivi circhi montuosi del Masino e delle Alpi. Piccoli nella conca del ghiacciaio del Torrone ci sentiamo schiacciati dai magnifici pilastri di granito gialli e grigi che si stagliano in un cielo tanto blu che è quasi… nero.
Il Passo Cameraccio è il più alto valico del percorso e di nuovo il sole ci scalda: una breve sosta per capire quale sia la migliore linea che ci porterà sotto la Bocchetta Roma. Qualche curva, un’interminabile diagonale e qualche metro a spinta ci fanno traversare tutta l’alta Val di Mello; forse sbagliamo l’approccio al pendio iniziale della bocchetta e perdiamo una cinquantina di metri. Ma non importa, metro più metro meno a questo punto non ci spaventa più camminare col “bambino”, tanto che Sergio arriva a suggerire che qualora non si possa salire alla Bocchetta Roma, si potrebbe traversare molto più in alto, al Passo Cecilia. Accolgo la proposta con un certo malessere ma, devo convenire che al limite, sarà l’unica soluzione possibile anche se in cuor mio prego per il successo della prima alternativa.
Di quei 150 metri di dislivello che ci separano dalla bocchetta ci ricorderemo per un bel pezzo: le alterne condizioni del pendio ci obbligano a mettere e togliere gli sci per ben due volte. Ripide rocce innevate, un pendio finale da togliere l’ultimo fiato e con una gioia raramente provata ecco il sole del versante Sud: siamo in Valle di Predarossa.
La discesa è magnifica, anche per uno come me che odia lo scialpinismo; centinaia di gobboni di neve levigata e indurita dal vento scintillano al sole. Nonostante il “bambino”, la giornata splendida, il sole, il silenzio e l’imponenza delle vette creano un insieme esaltante che si arricchisce ulteriormente di velocità e di curve ricercate nell’intrico dei cupoloni nevosi.
Grazie all’astuto diagonale tenuto in Val di Mello, abbiamo guadagnato molto tempo e a sette ore dalla partenza eccoci al rifugio Ponti. Il sole è ancora abbastanza alto e ne approfittiamo per fare asciugare la roba umida e per raccogliere l’acqua di fusione che in dispettose e incostanti goccioline piove dalla grondaia. Ci si rilassa al sole, si beve, si chiacchiera e poi, al tramonto, dopo una rapida cena subito a letto: domattina ci attende l’ultima fatica. Quinto giorno: ore sei. Lasciamo il grosso delle attrezzature e ci avviamo verso il Disgrazia, la giornata è ancora perfetta e Sergio super motivato. Me ne accorgo quando poco dopo il rifugio attacca a parlare senza interruzione raccontandomi delle sue esperienze di manager e di quando ha venduto la catena dì supermercati che dirigeva. lo sono più concentrato e preferirei godermi queste prime ore meditando sul ritmo del passo e la sua ottimizzazione. Lentamente e non senza una certa fatica eccoci alla Sella di Pioda; la temperatura si è abbassata di molto rispetto ai giorni scorsi, forse siamo a meno 10° C o più. Sergio soffre parecchio a causa dei postumì del congelamento che si è preso durante l’ascensione al Muztagata; saltella come un grillo e si agita per tenere in circolo il sangue mentre preparo la corda e faccio le ultime foto. La salita non ha storia a parte la particolare cautela alla quale mi obbliga uno straterello di neve crostosa che quasi a ogni passo parte via; speriamo che il sole in arrivo la trasformi quel tanto che basta per assestarla meglio. Presso la vetta, a soli dieci metri dal culmine un improvviso mal di pancia mi obbliga ad una disonorevole quanto sacrilega sosta: lo giuro, non avrei potuto fare un passo in più, nonostante sforzi sovraumani sono costretto a cedere alle bestiali esigenze dell’intestino. Sergio filma tutto con la handycam. Di nuovo alla Sella di Pioda rimettiamo gli sei per affrontare una spettacolare discesa che, dopo la sosta per riportare il “bambino” al suo peso normale, ci porterà alla piana di Predarossa. L’ultima fatica, la lunga discesa sulla strada fino alla frana di Valbiore è solo una piccola pena in più.
Testo e immagini forniti da Giuseppe Miotti.