[VIDEO] Petzl Legend Tour Italia: Finale - Up-Climbing

[VIDEO] Petzl Legend Tour Italia: Finale

Online da qualche giorno il nuovo video marchiato Petzl, che ci porta alla scoperta della scalata a Finale Ligure.

Come anche altri marchi hanno fatto in passato, Petzl vuole contribuire all’informazione nel mondo della scalata raccontando la storia di luoghi culto della scalata, luoghi che hanno fatto la storia. Attraverso le parole di Laura Giunta, che ci fa da ambasciatrice, andiamo a conoscere i personaggi storici della scalata finalese. Le gesta di Wafaa Amer e Federica Mingolla ci portano a contatto con la roccia e i tiri di cui si sente parlare. Le immagini, oltre a presentare i materiali prodotti dall’azienda, promuovono anche uno stile di scalata sicuro, con piccoli dettagli importanti che spesso vengono dimenticati nei video. Uno su tutti? Il partner checking, ovvero il controllo da parte di entrambi gli scalatori che la catena di sicurezza sia stata creata in maniera corretta e funzionante.

Uno dei primi ad apparire è Giova Massari, un eterno teenager innamorato della vita. Giova ha accarezzato i primi appigli più di trent’anni addietro, senza mai smettere. Pensate che sia un montanaro con il barbone e la camicia a quadri? Vi sbagliate. Il buon Massari è un ragazzino come lo era in Francia con Gallo e Berhault, quando danzavano sulla roccia gettando le basi della scalata moderna. Non sentirete mai rimpiangere una cosa dei vecchi tempi, non sentirete mai dire “ai miei tempi”: Giova trova il bello ovunque, rimanendo sempre attuale e sempre innamorato, eternamente preso bene. Chi è Giova in breve? Quello che tutti i genitori vorrebbero come maestro di arrampicata per i propri figli! Senza svelare troppo del video, che compare in alto nella pagina, facciamo due chiacchiere con Giova…

Non avendo vissuto quegli anni mitici in prima persona, la prima domanda è… Eravate consapevoli di gettare basi che avrebbero portato a Flatanger con tiri di 9c? Quale era, per dirla in termini di marketing, di la vostra vision e la vostra mission?

Innanzitutto vorrei dire che la storia di quegli anni e’ fatta, credo più che in ogni altro momento della storia delle scalate, di forze e personalità contrastanti che hanno appoggiato e osteggiato il cambiamento che era in corso ma soprattutto c’è stato un grande fermento di sperimentazioni su allenamenti, chiodature e mezzi tecnici che hanno portato come risultato all’attuale codificazione di quello che oggi è unanimemente accettato come modello dell’arrampicata sportiva.

Dovete immaginare un 1980 qui da noi senza scarpette, rinvii, spit, magnesite e moulinette e un 1986 in cui arrivano l’8a, le gare outdoor e indoor e tutto quello che ho citato prima… In soli 6 anni una rivoluzione totale di mezzi, modi, metodi, visioni di cui abbiamo potuto far parte ciascuno mettendo il proprio contributo e facendo tendenza in prima persona. Tutto ciò è nato, per quello che riguarda il nostro gruppo, prima copiando quello avveniva nella vicina Francia e poi seguendo da vicino, avendo anche il privilegio di poter arrampicare con loro, quelli che erano i nostri modelli più vicini e cioè Marco Bernardi e Patrick Berhault e in seguito sviluppando da noi un percorso più personale.

Fu poi il nostro ampio gruppo e per quello che mi riguarda il rapporto con altri sportivi come i miei amici Federico Bausone ed Andrea Gallo, già atleti in altre discipline, ad allargare la mia visione di quello che potevamo fare con un allenamento costante e maniacale e grazie ad un terreno a disposizione praticamente vergine per quel che riguardava la realizzazione di monotiri dal cuneese al finalese. La visione era duplice: salire vie difficili ma anche scoprire e chiodare nuovi settori liberando tiri sempre più impegnativi. Tutto questo con una costante e totale dedizione alla causa come se la nostra passione in quel momento fosse l’unico scopo di vivere; forse tutte le rivoluzioni nascono da un simile fermento di corpi ed idee… Personalmente io ero e sono ancora molto legato al mondo delle multipitch alpine ed a una sorta di compenetrazione spirituale con la natura ma pian piano quello che è successo in modo forse inconsapevole ma del tutto naturale è stato quello di orientarci lentamente alla sola pratica dell’arrampicata sportiva e del bouldering come oggi li conosciamo dal 1984/85. Direi che la nostra visione e la nostra missione erano una cosa sola: arrampicare il più possibile e il meglio possibile perseguendo i nostri obiettivi come se non ci fosse un domani; qualcuno orientato verso un percorso più personale altri verso un domani più competitivo che sfocerà poi naturalmente nel circuito competitivo delle gare di arrampicata.

All’epoca il movimento dello spit venne additato come peste, come poi le gare ed oggi le olimpiadi. Come hai vissuto questi cambiamenti? Da uomo di sport, come vedi l’arrampicata in ottica olimpica?

Nella stagione che ho vissuto personalmente lo spit era osteggiato in montagna ma universalmente accettato in falesia ed è stato sicuramente grazie ad esso che la progressione delle difficoltà è stata possibile e indolore a livello di incidenti. Era infatti impensabile spingere a livello fisico senza la certezza di poter volare senza conseguenze. L’arrivo delle gare non mi ha sorpreso. Era infatti già presente una competizione neanche troppo velata per accaparrarsi le prime libere o le prime ripetizioni delle vie più ambite e credo che un naturale confronto in ambito sportivo non possa che fare bene allo sport stesso perché il rischio può sempre essere quello di cantasela e suonarsela… L’arrampicata come sport può fare bene allo sport perché amplia la platea di chi si può avvicinare a livello amatoriale ad un’attività meravigliosa da svolgere da soli o da condividere con chi si ama e lo stesso vale per il suo arrivo alle Olimpiadi.Spero che in questo modo possano nascere più impianti, più falesie certificate e più figure che la possano promuovere ed insegnare come si merita visto anche l’aspetto educativo che essa può rivestire.

La visione profetica/spirituale/romantica della scalata si è un po’ persa. Quali sono le differenze che un climber con la tua esperienza vede, sia a livello umano che sportivo, tra le nostre generazioni?

La visione romantica e spirituale fa parte sempre di un percorso personale. Se prima era più diffusa, ma anche allora non totalitaria, era anche in ragione del fatto che c’era ancora una grande vicinanza con l’alpinismo e anche una visione dell’alpinista “più vicino al cielo, più vicino a Dio” e alla perenne ricerca di se stesso e che la piccola schiera degli arrampicatori proveniva culturalmente da quegli ambienti. Anche io mi sono sentito parte di questa schiera e non me ne sono mai completamente discostato ma non è certo praticando lo sport climbing che sviluppavo questa ricerca personale ma direi più nel free solo, nell’ice climbing estremo, su qualche high ball o nel bouldering solitario dove il  livello di concentrazione ti trasporta giocoforza in un’altra dimensione più intima, personale e simbiotica con il tuo io più profondo e con la natura; e questo compenetrarmi mi dà personalmente grande pace e tranquillità anche nella vita quotidiana. Altro è per me lo sport climbing che è espressione di forza e piacere del movimento e consapevolezza dei propri limiti.

Ecco vedi per me la differenza è lì: la maggioranza dei praticanti ora fa solo sport climbing che è un’attività stupenda ma priva di quella profondità di cui parlavo prima.

Se prima l’arrampicata sportiva era, come dicevo, appannaggio di pochi perché fuori tendenza rispetto alla montagna ora ha acquisito una dignità tutta sua così come il bouldering e questo non è sfuggito al sistema commerciale che l’ha fagocitata e restituita come moda.

Questo l’ha fatta diventare come qualunque altro sport con tutta una serie di articoli collegati e vendibili che prima non esistevano quasi e che ora ne fanno un business e fanno si che essa segua il percorso di molti altri sport per molti praticanti; niente di anormale ma il semplice passaggio da sport di nicchia a sport di massa incentrato soprattutto sulla ricerca (peraltro degnissima) del massimo livello di difficoltà e sul concetto di svago dagli importanti risvolti commerciali più che sul “come” o il “perché”. Ciò non toglie che ciascuno, anche oggi, possa iniziare un suo personale percorso spirituale/romantico (e chiunque vada ad arrampicare da solo sa di cosa parlo) anche ed essenzialmente fuori moda ma non per questo non degno di essere vissuto; credo che però questo debba comunque partire da quello che condiziona ed ha condizionato tutto quello di cui abbiamo parlato e cioè una grande, immensa passione che poi diventa amore in quello che si sta facendo e che solo allora ti può trasportare in un’altra dimensione e poi di nuovo far tornare ad una più consapevole normalità.

 

Fonte e cortesia foto Giova Massari

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