Jägerhorn - Up-Climbing

Jägerhorn

 

 

L’8 ottobre 2010, in circa 12 ore,  Daniele Nardi, Giovanni Pagnoncelli e Ferdinando Rollando hanno tracciato un nuovo itinerario sul versante nord-est dello Jägerhorn 3970 m  nel Gruppo del Monte Rosa. La via, chiamata Direttissima,  è lunga 950 m, 20 lunghezze, 60° su neve, 70/80° con tratti a 90° su ghiaccio, diversi tiri di misto fino al M5 e passaggi su roccia di 5c. Difficoltà complessiva TD+. I primi salitori hanno lasciato un chiodo dopo il terzo grande risalto di ghiaccio. Al termine della scalata, avvenuta con temperature molto basse e quando i tre dovevano preoccuparsi della sola discesa, un principio di congelamento ai piedi ha consigliato il recupero veloce del team tramite l’intervento dell’elicottero del 118 della regione Piemonte. (vedi racconto di Pagnoncelli)
 
Fonte e foto: Giovanni Pagnoncelli
intervista audio a Daniele Nardi
 

Per chi volesse ripeterla, le indicazioni di Ferdinando Rollando:
 
la Direttissima allo Jägerhorn risale l’evidente colatoio che dalla vetta scende sul Ghiacciaio del Piccolo Fillar. È l’unica via logica di salita della Parete NE, principale parete dello Jägerhorn, delimitata dal crestone dello Jägerrucken (E), sa­lito nel 1867 (it. 226d Guida dei Monti d’Italia – Monte Rosa) e dalla cresta NE (it. 226c), salita nel 1965.
Si attacca dal Ghiacciaio del Piccolo Fillar e si attraversa nel mezzo la parete con tre grandi risalti di ghiaccio, intervallati da diversi saltini e tratti di collegamento di nevai ripidi. Il secondo risalto è stato salito in uscita su misto difficile, per la poca consistenza del ghiaccio, sempre ottimo negli altri tratti verticali. La parte terminale, meno ripida, si è svolta su tiri di misto e neve inconsistente. L’uscita all’intaglio fra le due punte, per gli ultimi 100 m, si è svolta sullo Jägerrucken.
Sono state utilizzate 9 viti da ghiaccio, diversi chiodi da roccia, friends e nuts su roccia difficile da proteggere. Non ci sono state scariche di sassi e distacchi di neve accumulata dal vento


 
il report di Giovanni Pagnoncelli
 
Voglia di alpinismo, di mangiar freddo, fatica, rischi ma soprattutto emozioni. Retorica per chi è stufo di sentire parlare e leggere di stupide avventure in montagna, cose ben nitide e comprensibili per chi vive ancora di questi piccoli ed inutili sogni di verticalità.

All’ultimo punto di sosta, una decina di metri sotto la forcella da cui in breve raggiungeremo il bivacco, sento a distanza DIN DIN DIN a ritmo di quanto Daniele trema con le gambe e fa sbattere l’una contro l’altra le viti da ghiaccio. Sono le sette di sera ed è dal mattino alle 4 in punto, quando usciamo dal precedente bivacco, che prendiamo freddo. E pensare che solo pochi giorni prima mi trovavo alle miti temperature di un’isola greca. E’ il vento che si è alzato da metà pomeriggio che ci ha disturbato ma la concentrazione era tutta nell’uscire, nel sapere che proprio dietro quel gendarme di roccia, una scatoletta di lamiera rappresentava il nostro unico obiettivo. 

Era fine settembre e volevo giocare con piccozza e ramponi. A quaranticinque minuti d’auto da casa mia si trova il Ghiacciaio di Belvedere ai piedi della parete più alta d’Europa. Tale ghiacciaio è l’unico al mondo (ndr) che avanza. Avanza non perché le cime del Monte Rosa gli regalano più ghiaccio ma perché, al contrario, enormi quantità di detriti rocciosi determinano una pressione tale sul bacino di accumulo del flusso glaciale ai piedi della parete che, in modo anomalo, il ghiacciaio ha addirittura rotto qualche anno fa (ricordate il lago effimero?) le sponde moreniche nei pressi degli impianti di risalita. La giornata era stupendamente autunnale, cielo blu e terso, la neve nuova preannunciava definitivamente il cambio della stagione. Su e giù per i crepaccetti sporchi di detriti, PLUF a tonfo di piode che, in modo inquietante cadevano nei laghetti di fusione nel fondo delle crepe. Il ghiacciaio è vivo, si muove, si modifica. Miliardi di tonnellate scorrono lentamente sotto i piedi, spingono, scivolano, erodono. 
Vengo distratto da una linea, una lacrima di ghiaccio che quasi verticalmente scende dai canali proprio sotto lo Jagerhorn. La neve è veramente ancora poca ed è proprio questa unica situazione che rende così chiara distinta e chiara la linea appoggiata sullo scuro gneiss del Monte Rosa. Ricordo un inverno in cui ero a caccia di cascate in Svizzera per le stesse condizioni, pocchissima neve e tanto freddo che rendeva visibili da chilometri linee che la natura stessa disegnava sui fianchi delle montagne. Qualche giorno addietro sarei poi partito per la Grecia e l’idea, ma credo più il sogno, di salire una linea così logica l’avevo presto accantonata. Una settimana via dalle Alpi e i maledetti amici e conoscenti salgono di tutto, Gabarrou-Albinoni, Super Couloir, Colen MacYntayer, vie mitiche nel Gruppo del Monte Bianco. Maledetti… Qualche giorno dopo la calamita del Monte Bianco mi attira alla Midi, proprio io e Nando saliamo una divertentissima goulotte sul versante nord della Midi. Nonostante l’astinenza estiva, il misto, le piccozze e il buio delle nord ci risultano subito famigliari. Le condizioni dell’alta quota su questo genere di terreni sono super. Bisognerebbe prendersi un mese di ferie per salire tutto il salibile. Incastrare però gli impegni dell’uno e dell’altro è difficilissimo, ciononostante, dopo varie discussioni convinco Daniele e Nando a seguire il mio istinto che mi vuole sulla parete ossolana dopo aver guardato e riguardato ogni sasso nelle foto scattate con il teleobiettivo prima e dopo. Chiamo "Pelli", che mi dice che quella linea l’aveva già scorta anni fà e che secondo lui non era stata ancora salita, altri locals, col dovuto beneficio del dubbio, mi confermano la stessa cosa. Ma chissene… Un bel momento, inventarsi una salita di cui conosci solo come si attacca e come si scende dalla cima è come farla per la prima volta. La cosa più incredibile, però, è che questa linea l’ho rifotografata appoggiandomi con i gomiti sul tetto dell’auto parcheggiata in Piazza a Macugnaga… E’ davvero impossibile che nessuno dei tanti fortissimi che frequentano questa valle gli abbia mai fatto fatto un pensiero.

Comunque, decidiamo di prendere al volo una finestra di quarantottore ore tra i venti tempestosi prima e l’arrivo di una perturbazione poi. Daniele avrebbe preferito ripetere le mitiche vie sul Monte Bianco ma io ero proprio attirato da quest’altro desiderio esplorativo. Partiamo da Macugnaga, desolata come ogni autunno ed arriviamo al bivacco. Io e Nando andiamo a vedere un’alternativa per salire sul ghiacciaio a cui però rinunciamo per seguire i consigli del Buscaini che ci vuole per forza far salire quel fastidioso sperone nel buio della notte. Così sarà, con due frontali ed un freddo pungente, scaliamo per due ore sui secondi e terzi gradi verglassati cercando un continuo orientamento per arrivare più velocemente possibile sul ghiacciaio. Con qualche sbaglio di rito che ci fa fare qualche passo un po’ più difficile, giungiamo allo scopo ed iniziamo il cramponage. La logica che se da A a B fa tracciare una linea retta, in montagna e soprattutto sui ghiacciai non vale, l’abbiamo scoperto per l’ennesima volta. Così, nel buio più totale, ci troviamo a dover passare ponti di neve incredibilmente aleatori e a dover usare le due piccozze per uscire da quei baratri in cui siamo finiti. Un po’ di istinto e fortuna ci porta comunque fuori senza perdere troppo tempo e con il primo bagliore di quella che sarà una lunga giornata, iniziamo la salita. L’altimetro segna qualche metro oltre i tremila, quasi mille metri ci separano dal punto di arrivo. 
Potrei raccontare ogni metro di questa salita ma non basterrebe un libro. E’ andato tutto bene nonostante io per primo non mi aspettavo una parete così costantemente ripida mentre la mia paura di faticare lungo i raccordi di neve incosistente si è rivelata reale. Per me personalmente sono stati un calvario, un passo avanti ed uno indietro fino a scavare quel metro di neve che ci faceva grattare le punte dei ramponi sulle placche sottostanti. In un’occasione volevo sostare alla base di un paretina, vedevo una fessura ed era lì che era giusto piazzare una protezione. Il tiro lo richiedeva perché come tanti altri era aleatorio. Annaspavo nella neve di una gonfia da accumulo senza concludere nulla, non guadagnavo nemmeno un centimetro e anzi continuavo a sprofondare. Avevo appena prima studiato la foto presa da lontano salvata sul Blackberry, il tiro sotto dovevo andare a sinistra e quello dopo a destra, ma a destra proprio non riuscivo ad andarci. E’ così che ho ceduto, alla sicurezza mia e della cordata. Mi è sovvenuto come un lampo che Joe Simpson, per scendere dal Sioula, calava Simon scavando una buca nella neve su cui puntava i piedi e poggiava il sedere. Così ho fatto facendo sicura a spalla, su questi terreni essere primi o secondi non cambia nulla, ognuno deve sapere che cadere o scivolare è vietato. Siamo stati tacitamente affiatati, ognuno ha dato il suo e diviso decisioni e compiti, per sé stesso come per il gruppo. Mi rammarico per non aver diviso equamente la fatica del battere la traccia in quanto fisicamente meno forte. L’entrata dalla porta del bivacco sotto raffiche di vento impressionanti è stato l’inizio del piacere di una grande soddisfazione. Se poi Nando, per precauzione, ha preferito chiamare l’elicottero – visto che i piedi in salute gli servono per lavorare – ed avere in poco tempo la conferma di un medico che gli dicesse che era tutto è a posto, credo e crediamo che sia secondario.
Se qualcuno dovesse aver già salito questa linea ci auguriamo che l’abbia chiamata "Direttissima".

Giovanni Pagnoncelli
 
UPDATE
 
Ricollegandoci all’ultima riga del racconto di Pagnoncelli, c’è da segnalare che non è tardata ad arrivare la voce di Claudio Schranz, guida alpina di Macugnaga e grande conoscitore del Monte Rosa, che ha ricordato, per coloro che lo ignoravano, la sua prima ascensione – del medesimo canale – nel 1977 con  Marco Roncaglioni, seguita ad una settimana di distanza, dalla prima discesa con gli sci portata a termine dallo stesso Schranz. La notizia era stata a suo tempo pubblicata sulla stampa locale e sulle riviste specializzate. E’ probabile che la linea seguita dalla cordata Rollando/Nardi/Pagnoncelli differisca in alcuni tratti da quella percorsa dagli apritori, anche perchè non risulta che Schranz sia ricorso, durante la discesa, alla corda doppia in nessun tratto, mentre la via del "Trio" presenta tratti verticali sia di ghiaccio che di roccia.  
 
 

 

 

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