Liberare l'artificiale - Up-Climbing

Liberare l’artificiale

di Maurizio Oviglia ed Erik Svab
Pubblicato su UP2004
Sicuramente l’arrampicata nacque libera e solo in seguito fu "contaminata" dai mezzi artificiali. Prima rudimentali chiodi e corde di canapa, poi materiali via via più sofisticati che permettevano di superare le pareti anche senza la minima screpolatura. A seconda dei periodi storici e/o delle personalità dei vari alpinisti che hanno caratterizzato l’ultimo secolo di alpinismo, arrampicare in libera, piuttosto che in artificiale, ritornava ad avere più importanza. Mentre si arrivò a superare le pareti solo grazie all’ausilio di un’interminabile fila di chiodi a pressione, nello stesso tempo, c’era chi le superava in un sol colpo, senza corda né chiodi. Ciò dimostra il posto che ha sempre avuto, ed ha, la scalata libera nel cuore degli alpinisti ma evidenzia anche stile e capacità molto differenti che non sempre è conveniente paragonare, dato che anche la scalata artificiale ha una sua dignità e ragione d’essere. Tuttavia lo stile della "libera" è sempre stato considerato lo stile più nobile per superare una parete ed è per questo che l’esigenza di "liberare", ovvero rifare in libera, vecchi itinerari di arrampicata artificiale, è da sempre una delle sfide dell’alpinismo.

Le ultime estati sulle Alpi ci hanno regalato un ritorno di interesse verso questo tipo di imprese soprattutto con salite di alta difficoltà. La bella salita in libera della Via Couzy alla Cima Ovest di Lavaredo da parte di Mauro – Bubu – Bole, è stata l’interruttore che ha fatto accendere la lampadina nella testa di molti arrampicatori di punta. Utilizzare i progressi ottenuti con l’arrampicata sportiva e trasportarli sulle grandi pareti superate un tempo a forza di chiodi, utilizzando questi solo per proteggersi, senza aggiungerne di nuovi ma casomai togliendoli, era una sfida troppo invitante per non essere colta.
Tuttavia, anche in questo caso, non si tratta di nulla di nuovo, ma piuttosto di un "felice ritorno".  Come ci suggerisce Manolo, però, "salire sul VI, in libera e con pochi chiodi non è come farlo sul X°, c’è una bella differenza!" E noi ne siamo ben consci, anche se occorre valutare tutto il progresso tecnico di cui hanno beneficiato gli scalatori dell’ultimo ventennio. Forse è proprio per questo che ri-tornare a liberare vecchie artificiali oggi si presenta come una nuova sfida, anche se nuova non è. È un po’ come testare il progresso raggiunto, ma anche confrontarsi in modo intelligente con il passato, con gli apritori di quelle vie. Negli anni settanta si "liberava" per dimostrare che era possibile salire in libera dove gli apritori avevano usato i chiodi e legittimare la scalata libera. Oggi, che questa è universalmente accettata, perché si cercano questo tipo di imprese?

Senza bisogno di tornare indietro alle radici della scalata libera, per comprendere le ragioni dei "liberatori" occorre piuttosto focalizzarsi su quel cambio di mentalità che portò gli arrampicatori stessi a pensare che avesse un senso cercare di ripercorrere la stessa parete, vinta da altri, con stile più pulito, più nobile. In Europa questo avvenne all’incirca intorno alla metà degli anni ’70. Gli scalatori europei di quel periodo erano stati influenzati dalle salite in libera della Yosemite Valley dove però tardava a farsi strada il concetto della libera moderna. L’inglese Pat Littlejon fu certamente uno dei primi a dedicarsi alla salita in libera delle vecchie vie artificiali, e sicuramente sul suo esempio si mossero Ron Kauk, John Long e John Bachar quando liberarono Astroman, in Yosemite. In Italia, e precisamente sulle Dolomiti, operavano due fortissimi arrampicatori: Heinz Mariacher e Maurizio Zanolla – Manolo. Salire in libera, a vista, e in apertura era per Mariacher la massima espressione dell’arrampicata moderna in montagna e tanto aveva cercato di dimostrare aprendo Moderne Zeiten nel 1982. Dal canto suo Manolo arrampicava già dal 1977 con pochi chiodi perché quella era la sua formazione e la sua tradizione di montanaro nato ai piedi delle Pale di San Martino. Manolo "sentiva" che quella era la strada da seguire, così aveva quasi subito abbandonato le linee più proteggibili e arrampicava in apertura su muri inchiodabili, senza accorgersi che stava forzando i limiti del suo tempo. Cosa spinse il giovane Manolo a salire le vie Cassin e Carlesso alla Torre Trieste completamente in libera (negli anni 1977/8 con difficoltà di 6c e 7a+) è difficile saperlo. Probabilmente una sfida con se stesso o una convinzione maturata parlando con i protagonisti delle aperture del dopoguerra in Dolomiti, difficilmente una eco lontana delle cose che stavano succedendo in America, dato che Manolo viveva in una realtà a quei tempi isolata, ma nello stesso tempo in qualche modo rivoluzionaria. Poi c’era anche il desiderio di migliorarsi, di dimostrare che anche un itinerario già aperto poteva essere ri-creato, e superato in maniera più difficile e più nobile di quella dei primi salitori, pur riconoscendone con rispetto il valore riferito ai tempi in cui questi operavano.
Diverso il discorso per il francese Jean Claude Droyer, che nel 1973, in occasione di un viaggio in Inghilterra, fu fortemente impressionato dalle idee inglesi che portarono al concetto attuale di arrampicata libera. In Francia Droyer fu un vero pioniere dell’arrampicata libera e il portatore sulle falesie francesi di quelle innovazioni di mentalità e di stile, che sfociarono poi nell’arrampicata sportiva. Droyer a quei tempi conduceva, tra mille polemiche, una vera crociata contro i chiodi per la causa dell’arrampicata libera. Per lui superare in libera la Comici alla Cima Grande (1978, 6b+) e la Via Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo (1979, 6c+) fu una reale dimostrazione di quello che era possibile fare, un vero sasso nello stagno in un luogo che lui riteneva tradizionalista per eccellenza. Non a caso, come lui stesso dice, scegliere una via su una grande parete con una grande connotazione storica, era la premessa fondamentale per questo tipo di imprese e per la risonanza che egli intendeva dargli.
Un altro aspetto importante dell’approccio di Droyer, soprannominato per queste salite "Il maestro", fu la convinzione che, schiodando le vie che andava a superare da tutto il materiale superfluo, esse riacquistassero una certa dignitàŠ Togliere direttamente i vecchi chiodi fu inizialmente una provocazione, verso chi sosteneva che moschettonare o tirare un chiodo fosse lo stesso. Ma col tempo Droyer si appassionò al clean climbing e vedere una parete costellata di chiodi, era per lui un insulto alla purezza della roccia. Il superamento in libera di queste pareti era dunque per lui un modo per ridare dignità all’alpinismo ed emblematica è la frase con cui Lucien Devies commentò queste salite "Une nouvelle ethique est nécessarie pour que, dans les Alpes, la joie demeure" (Una nuova etica si rende necessaria perché, sulle Alpi, rimanga il piacere).
Negli anni ottanta la scalata delle grandi pareti si divise ulteriormente in stili e sottostili, perché oramai occorreva fare i conti con l’introduzione sistematica del chiodo a pressione in montagna, non più visto come semplice mezzo di progressione ma ora anche, o solo, di protezione. Se da un lato sempre più forte si faceva l’influenza dei pionieri dell’apertura dal basso col trapano, come lo svizzero Martin Scheel, le Dolomiti erano e sono tuttora rimaste sempre ancorate alla tradizione più che altri gruppi montuosi. Non è strano dunque che, proprio qui, ci fu chi perseguì la linea della tradizione con zelo quasi integralista, portando avanti la ricerca della difficoltà senza l’utilizzo di spit.
Ma se da un lato l’evoluzione continua con le vie cosiddette "sportive" e la salita in libera delle stesse ne era implicita conseguenza, dai "Tempi Modernissimi" di Mariacher sino alle recenti vie di Larcher, non si può dire la stessa cosa delle vie tradizionali. Partendo da un caso di stile perfetto, come quello suggeritoci da Heinz Mariacher con "Moderne Zeiten", salita per l’appunto a vista e in apertura, abbiamo poi le vie salite con l’ideale dell’arrampicata libera, delle quale l’esempio più interessante è forse la mitica "Via in memoria di Claude Barbier", salita sulla parete Nord della Cima Grande di Lavaredo dai fratelli cechi Coubal nel 1989 con difficoltà fino al 7b e protezioni molto dubbie. Infine molti dei capolavori degli anni ’80 doverono subire successivamente gli assalti dei liberisti: primo fra tutti la famosa "Via attraverso il Pesce", aperta nel 1981 dagli slovacchi Koller e Sustr e salita poi in libera nel 1987 proprio da parte di Heinz Mariacher e Bruno Pederiva con difficoltà di 7b+; ma anche le difficili vie di Maurizio Giordani sulla stessa parete, la Sud della Marmolada, salite peraltro in uno stile simile al Pesce e alla Barbier (spingendo cioè al massimo l’arrampicata libera e ricorrendo all’artificiale solo per brevi tratti ma già nell’ottica e nella speranza di salire anche questi in libera). Uno fra i più talentuosi (e spericolati) sotto questo punto di vista fu senza dubbio l’altoatesino Roland Mittersteiner, che prima con la libera di Fram e di Specchio di Sarah (7c) e poi con l’incredibile libera per di più "a vista" di Andromeda (7c+), portò avanti il limite del salibile in questo stile, limite attualmente ancora non superato!

Da qui alle salite recenti di Bubu Bole, di Hainz e di Larcher il passo è breve. Grazie al livello raggiunto in arrampicata sportiva oggi questi arrampicatori sono in grado di compiere cose fino a poco tempo fa impensabili. E le cose continuano a muoversi anche in altre regioni alpine, come per esempio ad occidente, in Valle dell’Orco, dove negli ultimi anni abbiamo registrato alcune prime libere di vecchie vie in artificiale ad opera di giovani arrampicatori, come Cristian Brenna per "Itaca nel sole" (8b, 2003), Massimo Farina con La "Via della Rivoluzione" (2002, 7c) e "Mangas Coloradas" (7a+), o ancora Rolando Larcher con "Colpo al cuore" (8a, 2002). Stesso discorso anche nelle Alpi centrali con le libere di Simone Pedeferri e di Miro Piala alle grandi vie delle pareti della Val Masino e dintorni.

Duole tuttavia constatare che le regole, secondo cui vengono portate a termine queste imprese, sono tuttora nebulose e facilmente interpretabili a proprio piacimento. Eppure già Jean Baptiste Tribout, nel 1987, si era incaricato di mettere nero su bianco lo stile a cui attenersi. In un momento in cui tutto il mondo riconosceva lo stile "rotpunkt", Tribout ne proponeva l’estrapolazione alla montagna scrivendo: "Il termine "libera" può talvolta lasciare cadere su certe realizzazioni un certo "flou" artistico. Secondo l’etica personale di differenti arrampicatori, fare qualche punto di riposo o accontentarsi di concatenare solamente le lunghezze non ancora liberate di una grande via, senza andare in cima, è sufficiente per dire di averla fatta in libera. La logica vorrebbe pertanto che una sola definizione sia presa in considerazione: concatenare vuol dire propriamente, come in falesia, salire di seguito tutte le lunghezze di una via, anche se questa ne presenta venti o trenta. Ne consegue che un’ascensione comincia alla base e finisce in vetta."
Riflettendo sulle chiare parole di Jean Baptiste viene da domandarsi a che punto siamo oggi, 15 anni dopo, e se esse siano state assunte a regola come per la falesia. La risposta non può essere che negativa, dato che nel caso di molte salite vengono liberati solo i singoli tiri tornando in parete a più riprese (o addirittura in anni differenti) o vengono salite le vie con l’aiuto di un compagno (a comando alternato), e non in continuità tutto da primi di cordata. Ciò significa che, essendo in tre, o per assurdo in quattro, il compito si semplificherebbe ulteriormente, potendo dividere tra tutti gli sforzi.
Il fine che si propone questa analisi, a cui seguiranno delle domande fatte sull’argomento ad alcuni dei principali protagonisti di queste salite in Dolomiti, è dunque quello di chiarirsi le idee, aprendosi una strada nel ginepraio dell’etica alpinistica. Stilare un metro di giudizio uguale per tutti, può essere fastidioso ed antipatico in un’attività fondamentalmente anarchica come lo è l’alpinismo. È tuttavia necessario ed auspicabile, almeno quando si parla di imprese ai massimi livelli, in modo da avere strumenti di valutazione chiari sullo stato dell’arte proprio sulle montagne che sono state le testimoni dell’arrampicata libera dai suoi inizi.


Liberare le vecchie vie di artificiale sta tornando di moda e molti arrampicatori di punta vi ci si stanno dedicando. Pensi che ciò risponda ad una carenza di obiettivi o anche altre motivazioni?

R. Larcher (I)
Non so per gli altri, per me no di sicuro. Personalmente ho il problema inverso: troppi obiettivi e fantasia.
Altre motivazioni possono essere l’occasione di un’avventura che ti da l’opportunità di conoscere e rivivere in chiave moderna, un alpinismo storico. Ma significa anche un ritorno di immagine sicuro, dovuto alla più facile ed immediata  comprensibilità della prestazione. Ripetere in arrampicata libera una via famosa, aperta da un alpinista famoso su una cima nota ha inevitabilmente un grosso riscontro "pubblicitario". Questo perché è comprensibile ai più, ma soprattutto a coloro che hanno in mano le redini dell’informazione di montagna: soggetti solitamente attempati, aggiornati nei casi migliori al Nuovo Mattino. Al confronto, una via nuova molto più impegnativa e creativa, passerà sicuramente inosservata e forse solo fra trenta anni verrà valorizzata.

Manolo (I)
È sempre stato stimolante cercare di salire in libera dove non sono riusciti gli altri o semplicemente dove non siamo riusciti noi e questo credo sia uno dei motivi che hanno contribuito all’evoluzione tecnica dell’arrampicata e dell’alpinismo. Ripetere completamente in libera una via che abbia anche un solo passo in artificiale equivale a liberarla e quindi a migliorare.
Tuttavia, c’è una sottile ma sostanziale differenza fra l’incognita assoluta di una nuova via e quella parziale di una ripetizione, per quanto quest’ultima possa essere difficile.
Al di là dell’evidente difficoltà della ricerca e dell’energia necessaria per l’apertura, (che va’ ben oltre la semplice difficoltà tecnica), è indubbiamente più comodo cercare di liberare una via in artificiale anche perché mal che vada si farà apparentemente meglio dei primi salitori e per i media è più risonante dell’ennesima via nuova. Questo non è sempre vero, poiché liberare una via è sempre un passo avanti, ma dovrebbe essere sufficiente a far riflettere sulla delicatezza del problema e di certe realizzazioni.

Bubu Bole (I)
Non direi che si tratta di una moda, nessuno sta inventando "l’acqua calda". Questo tipo di salite hanno sempre fatto parte dell’alpinismo e della sua evoluzione. Poi ogni arrampicatore ha le proprie motivazioni e la propria etica per affrontare questo tipo di salite.

C. Hainz (I)
Mi sembra che liberare una via vecchia che normalmente ha già tanti chiodi comporti meno lavoro in ogni senso ed è alla fine anche più sicuro che aprire una via nuova. D’altronde la prima salita in libera di una vecchia artificiale permette comunque di imbastire una storia e dal punto di vista promozionale può valere anche di più che una via nuova.

R. Mittersteiner (I)
Secondo me ci sono diversi motivi che spingono gli arrampicatori a liberare una via artificiale: il primo è lo svolgimento o la logica linea di una via: talvolta queste traversano placche o muri strapiombanti in modo diretto e così offrono un motivo, una sfida per tentare di liberarle. Una grande motivazione è anche il mito dell’impossibilità (nel senso della scalata in libera) di una via artificiale. Inoltre non bisogna dimenticare che su queste vie si trova spesso già tutto il materiale in loco e così si può verificare e provare senza rischiare la pelle. Soprattutto poi se uno rinforza le soste con gli spit come ha fatto per esempio Alex Huber su Bellavista.

Che cosa significa per te, dal punto di vista motivazionale, tentare di fare in arrampicata libera una vecchia via salita in artificiale? Che gusto c’è e perché sono importanti per te?

R. Larcher (I)
È una bella avventura con un’emozionante incognita. Un’occasione per fare una cosa nuova e motivante, una ripetizione che mi permette di ritornare nei luoghi classici delle Dolomiti che altrimenti non frequenterei più, impegnato come sono nell’apertura di vie nuove e nel mantenimento dell’allenamento. Le vie che ho provato in questi anni le ho sempre tentate a vista, è lo stile che mi dà maggior carica e mi impegna per minor giornate. Alcune mi sono riuscite, altre le ho abbandonate, altre ancora devo concluderle. L’emozione che si prova ad affrontare queste vecchie vie è tanta. Arrampico bardato di materiale come un guerriero, so da dove parto ma non so dove arriverò. Questa è l’incognita piacevole che cerco: un lungo labirinto dove mettere alla prova tutte le proprie capacità, affinate da anni di esperienza. Se ne trovo l’uscita, la gioia è intensa ed il ricordo rimarrà fortemente impresso. Altrimenti, la delusione verrà in breve scacciata dall’immediata voglia di ritentare o di trovare un’altra via. In poche parole un altro bel gioco del fantastico mondo dell’arrampicata.
Queste salite sono sicuramente delle ripetizioni, innegabilmente speciali, però risolvendole, mi danno delle sensazioni simili a quelle che provo nell’aprire una via nuova. Molti chiodi ci sono già, ma la linea di appigli ed appoggi che forse mi porteranno in cima in arrampicata libera è tutta da scoprire. Un’altra cosa che mi piace di queste avventure è l’occasione per conoscere indirettamente gli alpinisti del passato, capire la loro personalità, il loro stile, le loro motivazioni e le loro linee, ripercorrendole. Un confronto tra apritori con i dovuti ragguagli d’epoca. In poche parole, un modo per migliorare la propria cultura alpinistica.

Manolo (I)
Ricordo che fin dalle mie prime arrampicate non mi sembrava una cosa così onesta appendersi ai chiodi per salire e nemmeno farlo con un numero esagerato di protezioni. Con questo non vorrei denigrare o non riconoscere il volore di certe vie in artificiali, ma molte volte si è dato più importanza al fatto di arrivare in cima piuttosto che al modo con il quale lo si è fatto.
Per me non è mai stato così e credo di averlo dimostrato con le mie vie. Certe vie che ho aperto o liberato negli anni ’70 in Dolomiti, parlando di pura scalata su roccia, l’ho capito dopo, non avevano nessun confronto con quanto fatto in altre parti d’Italia e ciò è facilmente riscontrabile.
Cominciai a spingere sui miei limiti con la Carlesso alla Torre Trieste in libera (1978, 7a+), poi andai oltre con il tratto originale della Cima della Madonna (1978, 7b), quindi l’anno dopo sulla Biasin al Sass Maor (1979, 7b/c), per arrivare infine al Mattino dei Maghi sulla Totoga…
Cercare di forzare la libera riducendo il numero di protezioni lo trovavo eticamente più corretto, perché alla fine la difficoltà dipende anche dalla chiodatura. Fare la Carlesso oggi – con una protezione ogni "qualche" metro – è una cosa, farla on sight con una ogni 100 m, 25 anni fa, ne converrete che è un’altra. Questa non era per me una necessità ma una scelta ben precisa, come il fatto di limare al minimo il materiale in partenza per certe prime salite.
Per me l’obbligatorio a vista anche in apertura era qualcosa di eticamente molto importante, ed il resting non esisteva nemmeno per mettere i chiodi, e questo vorrei che fosse chiaro perchè non mi sembra che tutti lo facessero. Su molte delle mie vie degli anni ’70 non c’era la possibilità di proteggersi proprio perchè per scelta avevo già abbandonato le vie più evidenti o proteggibili per spingermi oltre e cioè in un terreno che mi consentisse di misurarmi in un modo assolutamente corretto, leale ed eticamente senza compromessi,  anche se notevolmente più pericoloso. Per questo molte vie aperte alla fine degli anni settanta hanno per me un grande significato etico proprio perchè limitavo le protezioni e nello stesso tempo aumentavo le difficoltà. Ripetere, impegnandomi meno che in apertura alcuni itinerari "artificiali" (la Carlesso e la Cassin alla Trieste, la Carlesso alla Torre Valgrande, la Bellenzier alla Torre Alleghe, il Philipp -Flamm in Civetta , la Tofana, la Rocchetta di Bosconero, le Tre Cime di Lavaredo, la Marmolada e molte altre vie …)   erano una conferma di quanto stavo facendo e un modo per dimostrarlo.

Bubu Bole (I)
La mia prima esperienza di arrampicata libera su una via con tratti di artificiale l’ho avuta diciotto anni fa sulla "Costantini-Apollonio" al pilastro della Tofana di Rozes, mentre l’ultima risale all’autunno del 2003 con la Via degli Spagnoli sulla nord della Cima Grande di Lavaredo. In questi diciotto anni di salite devo dire che dal punto di vista motivazionale non è cambiato assolutamente niente, anzi continua ancora la voglia di salire queste vie, che mi danno la possibilità di scoprire e di toccare con mano la storia umana più che sportiva dell’alpinismo. Questo genere di salite ormai fanno parte della mia evoluzione personale, ma la cosa più importante è che in tutti questi anni ho sempre rispettato l’impegno e il sacrificio dei primi salitori. Questo è l’elemento che mi da la forza e la motivazione di spendere stagioni intere su pareti segnate da righe di chiodi piantati decenni fa. Ogni via ha la sua particolarità, anche perché ogni chiodo rispecchia il carattere di chi l’ha piantato.

C. Hainz (I)
Mi interessa soprattutto sapere se è possibile salire in libera una via con potenziali alte difficoltà, magari anche con roccia friabileŠ C’è comunque sempre anche una certa curiosità. Dal mio punto di vista tutto quanto però perde il suo valore se le vie vengono attrezzate con gli spit in occasione dei tentativi di salita in libera.

R. Mittersteiner (I)
La cosa più stimolante per me è cercare di far diventare possibile qualcosa prima giudicato impossibile e gli altri motivi di cui ho detto prima.

C’è molta confusione etica su questo genere di prestazioni, tu credi che ci sia necessità di stabilire un metro comune per sapere quando considerare "liberata" una via?

R. Larcher (I)
Penso proprio di sì. Oltre al discorso importante del salire da capocordata o in alternato, la via è liberata solo quando viene percorsa interamente in libera, senza alcun tratto di artificiale e con varianti minime che usufruiscono delle protezioni in loco o della linea originale.

Manolo (I)
Per me è indifferente: se una via di 10 tiri è liberata da 10 arrampicatori è una via "liberata" ma non è stata salita integralmente da nessuno. Per cui
una via può dirsi liberata quando tutti i tiri sono stati saliti rotpuntk e personalmente salita quando sono riuscito a farli tutti in libera.

Bubu Bole (I)
Penso che la vita sia già troppo piena di regole da seguire, quindi per quanto mi riguarda direi di lasciare stare l’arrampicata lontano dalle leggi, almeno fino a quando sarà possibile! Per me arrampicare equivale a un senso di libertà dove posso decidere di fare tutto quello che mi passa per la mente senza andare incontro a contravvenzioni. Ognuno si esprime seguendo la propria etica, tanto poi chi giudica non è una corte marziale, ma la nostra coscienza.

C. Hainz (I)
Per me il fattore più importante su questo punto è la sincerità degli scalatori. Quando si pubblica una notizia si deve dire esattamente come, quando, chi è salito da primo sul tiro chiave, ecc.

R. Mittersteiner (I)
Secondo me sarebbe sufficiente se ognuno dicesse chiaramente come ha fatto la sua salita. Poi è chiaro se uno non sale la via nello stile "rotpunkt" questa non può considerarsi liberata. Questo stile richiede che l’arrampicatore scali la via in un solo giorno e da capocordata o in due giorni o più giorni (sempre durante un tentativo continuato) se la via richiede più tempo. Comunque secondo me ognuno deve fare come si sente.


Applicando la logica della rotpunkt in falesia, una salita in libera dovrebbe essere compiuta solo da una persona da capocordata (e non a tiri alterni) e tutta di seguito, dall’inizio alla fine. Solo così si può parlare di rotpunkt della via, mentre in altri casi si parla eventualmente di rotpunkt dei singoli tiri. Sei d’accordo con questa "regola" o proponi dei compromessi, come salire da primo tutti i tiri più difficili e andare in alternato sugli altri?

R. Larcher (I)
La cosa migliore in assoluto è la libera tutta da capocordata in un’unica soluzione e magari on sight. Nella realtà dei fatti però, visto che non ci troviamo in falesia e ci sono notevoli problemi logistici o di reperimento dei compagni, qualche deroga ci potrebbe forse stare, ma con il severo obbligo di dire esattamente come si sono svolti esattamente i fatti. E qui temo che l’asino precipiti!!!!!
Salire i tiri più difficili della via e andare in alternato sugli altri mi sembra un compromesso accettabile: se successivamente arriva uno che però se la spara tutta da primo, chiaramente avrà il suo dovuto riconoscimento. Certamente però la vera incognita la troverà solamente il primo candidato, chi verrà dopo sfrutterà l’esperienza e le informazioni altrui sia per la difficoltà che per le protezioni.

Manolo (I)
Ci sono modi e modi di liberare una vecchia via e credo che la tecnologia abbia dato una grossa mano alla tecnica (un friend a volte è decisamente più sicuro di un chiodo) e una fessura offre molte più garanzie di un levigato muro. È evidente che è il livello raggiunto che consente di dominare difficoltà sempre più elevate. "Mentalmente permettendo" se sono in grado di dominare l’8c è indubbio che liberare una via in artificiale che in libera valga 8a sia, per quanto poco proteggibile, tecnicamente molto più facile che fare un 8c in falesia, anche se molto più rischioso e in qualche modo più "alpinistico".
Non ritengo una forzatura deviare di poco dalla linea di apertura, (vorrei però non essere frainteso e considero una variante il discostarsi completamente dalla linea originale) anzi talvolta può essere ovvio e naturale, anche perché la vera forzatura probabilmente è stata l’artificiale, che segue evidentemente un’altra logica.

Bubu Bole (I)
Salire da capocordata tutti i tiri è una mia etica personale e penso che questo valga anche per molti altri, ma evidentemente non tutti seguono questo stile. Ma come dicevo prima ognuno è libero di fare quello che sente.

C. Hainz (I)
Sarei d’accordo con la seguente regola per la rotpunkt: ogni tiro deve essere fatto in libera da uno o dall’altro dei componenti della cordata. Se una persona fa tutti i tiri di una via da primo e in giornata o comunque durante un singolo tentativo, la prestazione è migliore e più pulita come stile.

R. Mittersteiner (I)
Sono d’accordo. Se una cordata fa la salita insieme è anche bello, ma non ha lo stesso valore dal punto di vista sportivo. Conta poi anche il tempo impiegato e lo stile di una ascensione: c’è una bella differenza se una cordata (per esempio in Himalaya su una via lunga) usa corde fisse per "lavorare" e provare i tiri di una via o se questa cordata sale in puro stile alpino con poco materiale nel più breve tempo possibile.

Molti climber, pur di liberare una via, ricorrono a sostanziali varianti, anche molto lunghe, che si discostano molto dall’itinerario originale. Cosa ne pensi, non ti pare una forzatura per portare a casa il risultato a tutti i costi?

R. Larcher (I)
Assolutamente si. Io posso anche capire la motivazione anche economica di certe presunte prestazioni di taluni (vedi Huber), ma se è liscio e non si passa, la via non l’hai liberata! Sognare una via tutta in libera è una cosa sacrosanta e giusto è fare delle eventuali varianti se si incontrano dei tratti non risolvibili. L’importante è poi dire e scrivere chiaramente quello che si è fatto. Non c’è nulla di disonorevole nelle varianti, ma la via originale non la si può definire liberata, è una questione di serietà.
L’impossibile speriamo che duri ancora per qualche anno!!!!!

Bubu Bole (I)
Con questa risposta non voglio accusare nessuno, ma penso che le varianti molto lontano dall’originale non facciano più parte della via. Finché passi un metro più a destra o più a sinistra dell’originale e ti proteggi sulla chiodatura già esistente, è una cosa che fa parte del gioco, se invece sei costretto a chiodare delle lunghezze intere lontano dall’originaleŠ beh, allora è una via nuova e necessariamente diversa.. Ma ripeto, è sempre una questione personale.
Sulla via degli Spagnoli alla terza lunghezza ho trovato ad un punto dove non riuscivo a passare in libera, almeno non per le mie possibilità! Giuro che ho pensato di tutto: scavare qualche buchetto o migliorare qualche presa, aprire una variante a destra o a sinistra, ma poi la coscienza mi ha suggerito di tirare e trazionare sui chiodi originali anche se così ho spezzato la purezza dell’arrampicata libera. Non ero per niente soddisfatto di questa decisione, ma a mente fredda sono contento di aver fatto questa scelta nel rispetto dei primi salitori, della natura stessa e della mia etica!

C. Hainz (I)
Sì, significa veramente una forzatura. L’alpinista in questione non ha avuto la capacità di liberare la via originale e pertanto non sarebbe giusto parlare di successo!

R. Mittersteiner (I)
Dipende un po’, perché talvolta le vie artificiali salgono in modo diretto senza guardare se la roccia offre delle possibilità un po’ più a destra o a sinistra. Sarebbe comunque stupido seguire a tutti i costi una linea diritta senza guardarsi in giro, ma questo dipende anche dallo spazio che c’è su una parete e quante sono le altre vie che salgono nelle vicinanze.


Che importanza ha l’aspetto psicologico delle protezioni esistenti sulle vie: nelle tue libere, come ti sei comportato con la chiodatura esistente? Credi che sia giusto rinforzarla o la chiodatura dovrebbe restare esattamente com’era, sostituendo solo le vecchie protezioni con nuove dello stesso tipo o anche aggiungendo per esempio degli spit sulle soste?

R. Larcher (I)
L’aspetto psicologico ha un importanza pari o forse superiore a quello fisico. Sulle linee che ho tentato e che tento rinforzo al bisogno in modo tradizionale. Lungo i tiri non voglio aggiungere spit. Sui tiri delle vie che ho fatto sino ad ora, avendole superate a vista, ho quasi sempre rinforzato con protezioni veloci e molto raramente con chiodi tradizionali e raramente ho ribattuto quelli vecchi. Questo perché è molto difficile e dispendioso da farsi lungo tiri di 7b e più con una decina di chili appesi all’imbrago.
In queste avventure, porto sempre con me 10 spit da 8mm con il perforatore a mano per le soste. Le soste che non mi danno garanzia le rinforzo sempre in modo tradizionale. Nel caso non ci sia tale possibilità e dove in loco vi siano già dei vecchi chiodi a pressione, a volte aggiungo uno spit. La mia filosofia è: le soste devono essere solide, io posso azzardare lungo i tiri, ma il mio compagno non deve pagarne le conseguenze.

Manolo (I)
Ripetere e liberare una via classificata A3 A4, completamente chiodata o parzialmente schiodata, non è assolutamente la stessa cosa che farla quando i chiodi non ci sono e le soste non sono "riprotette" da spit. Senza togliere nulla a nessuno ma "la differenza salta agli occhi", come si dice in una nota canzone! Oggi si compie piuttosto il processo inverso, prima si aggiungono chiodi sicuri e poi si libera!  Nelle mie ripetizioni di vecchie vie o di vie in artificiale non ho mai alterato la chiodatura originale. Ad onor del vero ho fatto un’eccezione per la "Via Biasin" al Sass Maor: dopo averla percorsa almeno 7-8 volte in libera ho aggiunto tre spit ma tolto un mucchio di ferraglia che mi sembrava terribilmente "antiestetica". Riconosco che avrei anche potuto lasciarla com’era, ma del resto anche in Totoga mi sono prodigato a migliorare molte cose, questo però non significa che abbia fatto bene. Comunque questa piccola macchia non toglie nulla al fatto che abbia sempre effettuato la prima ripetizione di qualsiasi via in artificiale assolutamente senza alterarne l’originale chiodatura.
Ma sono convinto che più aumentano le difficoltà e più sia naturale trovare che certe protezioni non siano "confortanti". Sopratutto le soste, che nel caso non siano sicure non garantiscono nemmeno la sicurezza del compagno (al quale magari non frega nulla dell’eroica salita in libera assolutamente pulita). Però rinforzare le protezioni o le soste in modo alterato credo anche che sia "alterare" la via, insomma in qualche modo un compromesso per poterla fare.
Sono assolutamente consapevole che alcuni chiodi a pressione vecchi di 40 -50 anni non offrano una grande sicurezza; penso che sostituirne qualcuno con qualche spit sia un compromesso accettabile. Però poi non sarà più la prima libera di una via di artificiale, magari di A4, ma qualcos’altro…

Bubu Bole (I)
Io ho sempre lasciato la chiodatura originale com’era e non ho mai aggiunto nessun chiodo sui tiri, evidentemente non ne vedevo la necessitàŠ ma forse è stata anche pigrizia. Solo sulla Via degli Spagnoli ho dovuto aggiungere decine di chiodi, ma si trattava di una via che era stata completamente schiodata dai primi salitori e mai ripetuta prima.
In ogni caso sulle soste ho sempre aggiunto degli spit, perché nell’ambito della mia etica personale le soste devono essere sicure nel rispetto della vita del mio compagno di cordata e della mia. Giudicando questa decisione degli spit sulle soste anche su vie che magari prima non ne avevano mi auto-accuso, perché in ogni caso sono andato a toccare una salita, una realizzazione già esistente è l’ho trasformata e "sporcata"! In fondo mi rendo conto che queste mie prime salite il libera sono una forma di puro egoismo o come a volte si dice: "Voglio ma non posso"! Chissà se un giorno qualcuno sarebbe riuscito a salire le vie che io liberato per primo senza aggiungere nessuna protezione alle soste? Molto onestamente penso di sì!

C. Hainz (I)
Se parlo delle mie prime libere più importanti: sullo spigolo "Scoiattoli" alla Cima Ovest di Lavaredo e sulla via "Molin" alla Cima Dodici ho lasciato la via e le protezioni esattamente come le avevo trovate. Sulla via "Maestri" alla Roda di Vael ho sostituito solo alcuni chiodi (comunque sempre con chiodi normali!) e ho rinforzato due soste con chiodi normali. Bisogna però distinguere in due diversi casi: se una sosta (come accadde spesso per esempio in Tre Cime) ha un sacco di chiodi a pressione vecchi, mi sembra normale e più pulito mettere due spit nuovi, visto che stiamo parlando comunque di chiodi a pressione (vecchi o nuovi) e ciò vale solo per le soste. Preparare invece una via scendendo con una corda fissa dall’alto per me è invece uno stile inaccettabile!

R. Mittersteiner (I)
Io non mi sono mai portato degli spit dietro e ho sempre trovato la possibilità di rinforzare la sosta con materiale tradizionale (che dopo ho comunque tolto). Se ciò non fosse stato possibile sarei tornato indietro per non esporre il mio compagno a un pericolo troppo grande. Credo che con l’assenso dei primi salitori sia anche tollerabile rinforzare la sosta con degli spit anche dove prima non c’erano. Alla fine dipende un po’ anche della situazione e dalla tradizione della zona in cui si fanno queste salite.


Quale è il tuo più bel ricordo su una di queste salite?

R. Larcher (I)
Il bivacco improvvisato per nulla preventivato a tre quarti della "Piussi" alla Torre Trieste. Partito con solo l’attrezzatura per una giornata per saggiare la prima parte dalla via, riuscivo a superarla onsight. Vista la precarietà del tratto scalato, con il benestare del mio compagno, Lino Celva, decidemmo di proseguire con la speranza di risolverla tutta a vista, ma con la certezza di un bivacco precario e delle previsioni meteo pessime.
Forse è eccessivo definire questo il più "bel" ricordo, ma alla luce dell’alba uggiosa che ci destò e dal risultato positivo dello sforzo, difficilmente lo dimenticherò.

Manolo (I)
Il ricordo più bello è un insieme di una vita verticale vissuta con la sottile incertezza che divide il successo dal fallimento.
Per andare contro corrente potrei dire che in quegli anni non esisteva nessuna differenza fra una falesia di 200 m o una via in montagna, dal momento che la tecnica di salita era la stessa e l’unica vera differenza erano solo i minuti di approccio.
La prima via che ho salito sul M. Totoga (una falesia del Primiero) si chiama "Lucertola shizzofrenica", (max 6c ma anche 6c obbl. 5 lunghezze). Oggi sembra che non abbia nulla a che vedere con le vie più impegnative che avevo aperto o ripetuto in Dolomiti, ma è curioso pensare come l’approccio in quell’ambiente da falesia sia stato influenzato da un’etica estremamente rigida e come questa abbia allora "azzerato la differenza" e tutto sommato come lo possa fare anche oggi.

Bubu Bole (I)
Senza dubbio è la via Couzy alla Cima Ovest! È la storia più bella che ho vissuto e quella più intensa, anche perché è stata la via che ha cambiato il corso della mia vita!

C. Hainz (I)
Per quanto mi riguarda la via "Maestri" è quella che mi ha dato più soddisfazione.

R. Mittersteiner (I)
Tutto l’anno 1992: mi sentivo molto in forma, invincibile e immortale. Ho realizzato alcune belle vie in Dolomiti soprattutto su pareti con roccia molto buona come quella della Vallaccia (in Val di Fassa, vie "Il canto del cigno" 7a+/7b, "Via delle arti" 7b); itinerari brevi che i trentini Graziano Maffei – Feo e Paolo Leoni hanno aperto già all’inizio degli anni ’80 in stile misto (in arrampicata libera fino al VI+ e in artificiale) senza chiodi a pressione, perciò con protezioni tradizionali. Per quel periodo (erano gli stessi anni del Pesce) erano vie veramente interessanti e difficili.
È stato anche il mio ultimo anno in montagna, dato che alla fine dell’estate ho avuto una rovinosa caduta in Marmolada sul primo tiro di una via nuova che stavo aprendo in stile tradizionale sul passo Ombretta, dove mi sono fratturato una caviglia. Per me poi è iniziata una nuova fase della vita in cui arrampico di meno, faccio soprattutto arrampicata sportiva e boulder ma non mi prendo più certi rischi e non vado più in giro come una volta. Ora vivo a Innsbruck dove ho una famiglia, insegno ai corsi di arrampicata e faccio un po’ di boulder ogni tanto.

Condividi: